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Quattro motivi per cui la birra artigianale fatica a entrare nei ristoranti italiani

Qualche giorno fa sulle pagine del magazine Imbide è apparso un interessante articolo a firma Jacopo Mazzeo, degustatore (anche) di birra che da alcuni anni vive in Inghilterra e che, tra le altre cose, in passato ha collaborato con Cronache di Birra. Il suo pezzo – una via di mezzo tra il reportage e l’intervista – affronta il tema dell’ingresso della birra artigianale nei ristoranti, sottolineando le difficoltà che vive il Regno Unito da questo punto di vista. Una situazione paradossale considerato il potenziale a disposizione e lontana anni luce da quella di altre realtà, tra cui Belgio e Stati Uniti, dove negli ultimi anni i prodotti craft hanno sfondato anche nella ristorazione. Chi ha viaggiato in questi ultimi paesi si sarà infatti accorto di come la birra di qualità sia ormai una costante, capace spesso di arrivare sulle tavole dei grandi ristoranti. In Gran Bretagna, invece, la stessa tendenza incontra ancora innumerevoli resistenze. Se tutto questo vi suona familiare è perché anche l’Italia si trova in una condizione molto simile, con l’aggravante di rappresentare uno dei punti saldi a livello mondiale per tutto ciò che riguarda la gastronomia.

Per capire le cause delle difficoltà dell’Inghilterra in questo specifico contesto, Jacopo ha intervistato Adam Duyle, chef esecutivo della Brewers Association, cioè l’associazione che riunisce i birrifici americani. Secondo lui il problema del Regno Unito è il modo in cui la birra è percepita: un prodotto destinato ai pub, agli happy hour e al consumo nel weekend, con il vino che invece acquista importanza nell’abbinamento durante i pasti. Al contrario negli Stati Uniti si è verificato un profondo cambiamento perché sono cambiati i consumatori: è aumentata la domanda di cibo locale accompagnato da birre del territorio ed è cresciuto il turismo birrario. In altre parole la birra craft ha penetrato un’ampia fetta di pubblico e ha trainato un cambio di abitudini, che ha esortato la ristorazione a rivolgersi alla nostra bevanda in una maniera nuova e inedita.

Perché tutto questo non è successo in Italia? Perché quello tra cucina e birra è un matrimonio che non siamo ancora riusciti a celebrare, nonostante le ottime premesse? Perché devono essere altre nazioni, pur con una tradizione gastronomica rispettabile, a spiegarci come abbinare birra e cibo? I motivi sono diversi e ho provato a riassumerli per punti.

L’Italia è un paese a trazione vitivinicola

Il primo punto, per nella sua ovvietà, produce almeno due effetti. Il primo è abbastanza evidente, perché il dominio del vino toglie chiaramente spazio alla birra, che rischia di rimanere sempre relegata a una visione marginale: è l’orpello, la stravaganza o l’espressione dello strano pallino del ristoratore di turno. In realtà situazioni del genere possono tranquillamente cambiare, poiché ogni prodotto ha dei valori unici sui quali fare leva. E la birra da questo punto di vista è ben messa, anche nei confronti del “nemico” vino. In effetti negli ultimi anni qualcosa sembra essere mutato in questo senso, ma è il modo a lasciare perplessi: la presenza della nostra bevanda ha acquistato spazio nei ristoranti, ma in maniera poco organica, senza una logica legata alla qualità e con proposte poco interessanti nei confronti del pubblico.

Il secondo effetto si ritrova in quella posizione di subordinazione che la birra soffre nei confronti del vino. Anche in questo senso l’approccio del mondo della ristorazione è leggermente cambiato nel tempo, eppure permane un approccio superficiale nei confronti della bevanda. In passato mi è capitato personalmente di ascoltare sommelier che, con straordinaria supponenza, stroncavano ottimi prodotti artigianali perché in fin dei conti “puzzavano di birra”. Questo oggi per fortuna non accade più, ma quell’impostazione arrogante si ritrova in altri atteggiamenti, meno evidenti ma ugualmente dannosi.

Da parte della ristorazione c’è pigrizia e inerzia

Il più dannoso tra gli atteggiamenti di cui sopra – e forse anche il più diffuso – è quello dei ristoratori che decidono di proporre birra artigianale per “moda” o perché “lo fanno tutti”. Ciò significa che difficilmente faranno ricerca e che il loro desiderio di ampliare gli orizzonti sarà più la conseguenza di un mero calcolo commerciale (ammesso che sia corretto) piuttosto che di una sana passione. Quindi facilmente si affideranno al distributore di turno che, essendo specializzato in prodotti di tutt’altro tipo, nella migliore delle ipotesi gli proporrà una selezione di birre artigianali di qualità discutibile, create appositamente per i determinati canali commerciali. Per questa ragione spesso la birra nei ristoranti non è il frutto di una profonda ricerca, ma l’effetto di un desiderio di non rimanere indietro rispetto alla concorrenza. La maggior parte dei ristoratori o dei loro sommelier non conosce la bevanda e spesso non sa neanche riconoscere una birra artigianale da un prodotto crafty dell’industria. Il risultato per il consumatore finale è tremendo, perché si ritrova a bere prodotti pessimi o pseudo artigianali: la conseguenza è la creazione di totale confusione sull’argomento se non addirittura una presa di distanza nei confronti della stessa birra artigianale. Insomma, un fenomeno dannoso per tutto il settore.

In Italia si beve poca birra

Sebbene i consumi stiano aumentando di anno in anno, in Italia si beve ancora poca birra. La bevanda purtroppo è lontana da acquisire una dimensione quotidiana, tale da essere percepita come un elemento fondante della quotidianità delle persone. Come succede nel Regno Unito, anche da noi la birra è associata ai pub e alle birrerie e a determinati periodi dell’anno (in particolare l’estate). Se avete viaggiato in uno dei paesi in cui la birra craft è entrata stabilmente nei ristoranti, vi sarete accorti che la bevanda è al centro delle abitudini della popolazione. Nel mio ultimo viaggio negli Stati Uniti, ad esempio, ho incontrato birra artigianale locale a ogni sosta, che fosse un ristorante di livello, una bettola turistica, un bistrot informale o un chiosco in città. Per un appassionato tutto ciò è esaltante, ma ci si rende conto che non è altro che l’espressione di un profondo rapporto che i consumatori hanno con la bevanda. Lì, come in Belgio e in altre realtà, la birra scandisce le giornate ed è al centro dei rapporti interpersonali. Il suo ingresso nel mondo della ristorazione appare quindi un fenomeno quasi naturale, mentre da noi assume ancora le sembianze di una forzatura, con tutto ciò che ne consegue.

Le croniche lacune comunicative

Tra i motivi del successo indicati da Adam Duyle c’è la comunicazione: negli anni passati la Brewers Association ha investito in corsi di birra e cibo, nella creazione di linee guida sugli abbinamenti e di ricette a tema. Ha prodotto materiale informativo dal forte potere persuasivo, valorizzato da un linguaggio che ha abbandonato i tecnicismi del settore per rivolgersi a un pubblico allargato e composto da neofiti. La birra è entrata nei corsi per sommelier, ma l’ha fatto nel modo giusto e non inseguendo partnership con l’industria di turno. È stato compiuto un lavoro di sensibilizzazione sul prezzo della birra artigianale e sulle sue caratteristiche. È stato promosso un approccio integrativo, in cui la birra è stata presentata come uno degli elementi sui quali si forma l’esperienza del cliente, al pari del vino, dei distillati, dei miscelati e di altri prodotti del beverage. Ovviamente nulla del genere è stato fatto in Italia e le uniche iniziative in tal senso sono state portate avanti dall’industria, che poi ovviamente ne ha approfittato per piazzare i suoi prodotti super premium.

In realtà le cause del mezzo fallimento non si esauriscono qui. Nell’ultima domanda della sua intervista, Jacopo Mazzeo chiede ad Adam Duyle quali suggerimenti darebbe ai birrai britannici che vogliono promuovere i loro prodotti nei ristoranti. La risposta è la seguente:

Innanzitutto consiglio loro di andare a mangiare nei ristoranti. Capire il cibo. Costruire delle relazioni. Invitare i ristoratori e i loro staff in birrificio. Essere parte di una storia è un potente grimaldello non solo per vendere birra, ma anche per aprire una porta all’interno di un ristorante.

E probabilmente la chiave sta proprio (o anche) qui: creare relazioni, farsi conoscere. Molti potrebbero obiettare che dovrebbero essere i ristoratori i primi a frequentare i luoghi birrari, e sono il primo a ribadirlo. Ma per non incorrere nello stesso errore è forse arrivato il momento di rimettersi in gioco e smettere di restare arroccati sulle proprie posizioni. Fare il primo passo, portare la montagna da Maometto. E lavorare insieme per superare tutti gli altri limiti.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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5 Commenti

  1. Carissimo, conconcordo pienamente. In particolare l’ultimo punto analizzato, le lacune comunicative, è la causa principale. Ti posso assicurare che i birrifici cercano di spronare Unionbirrai, segnalando anche i costanti abusi delle multinazionali, ma poco o nulla si muove.
    I birrifici oggi chiedono azioni legali forti contro la pubblicità ingannevole delle multinazionali (Ichnusa, Birra Messina, ecc…) ed una comunicazione persuasiva rivolta ad un ampio pubblico sulle orme della Brewer Association.
    Se non vado errato la birra artigianale negli Stati Uniti ha una quota di mercato superiore al 10%, mentre in Italia forse non arriviamo al 3%.
    Facciamoci delle domande, la colpa non può essere sempre e solo dei ristoratori e dei consumatori.

    • Sul fronte della tutela del marchio birra artigianale si può sempre fare di meglio, ma direi che negli ultimi tempi Unionbirrai si è mossa con decisione, ottenendo anche risultati importanti.
      Sul discorso comunicazione per la ristorazione, beh lì c’è lo zero assoluto.
      Inutile paragonare USA e Italia per tantissimi motivi diversi. L’approccio dei birrifici al mercato gioca un ruolo importante, ma non l’unico e né il primario.

  2. Aime Andrea hai ragione su tutto, io che la birra artigianale la vendo, so i problemi che ci sono, ma credo che ci sia una soluzione, e sta nel fronte comune, si dovrebbe lavorare tutti insieme per far conoscere la birra artigianale ai ristoratori con dei corsi dedicati appositamente per loro, nel senso che li si vanno a cercare e si chiede, vuoi partecipare al corso …. è fatto proprio per voi che avete il ristorante e ovviamente farli pagare

    Mi è capitato di proporre un piccolo corso per i proprietari e camerieri che acquistavano la birra che vendo giusto per colmare grandi lacune, ma la risposta è stata vedremo, e sapete come è andata a finire

    quindi
    le associazioni di categoria dovrebbero organizzare un bel corso completo e ad un bel prezzo, e forse scucendo il denaro capiranno quanto è bello e complicato il mondo delle birre

  3. Anche io concordo con Andrea, l’Italia e il paese europeo con il più basso consumo di birra e la ristorazione e6 orientata solo sul vino. Però da produttore di craft beer vedo che la ns produzione craft è orientata spesso verso birre spesso difficili per l’abbinamento con il cibo. L’Ipa in tutte le sue declinazioni non mi sembra una birra da abbinamento per i gusti italiani, mentre le basse fermentazioni snobbate dai puristi sono le più facili da abbinare. Inoltre la prevalenza dei birrifici preferisce vendere nelle tap room dove la marginalità è alta anziché impegnarsi nella distribuzione che è impegnativa e meno remunerativa. Quindi anche noi dobbiamo cercare soluzioni anziché solo recriminare.

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