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La definizione americana di “craft beer” e com’è cambiata negli anni

A metà dello scorso aprile, mentre eravamo nel pieno dall’emergenza coronavirus, la Brewers Association ha pubblicato il consueto report annuale sul comparto craft, con riferimento al 2019. Seguendo un trend ormai in corso da diverso tempo, anche questo documento ha confermato una crescita che sembra non conoscere pausa: negli Stati Uniti la birra artigianale ha raggiunto il 13,6% del mercato in volume, mostrando un incremento vicino al 4% a fronte del calo (-2%) del mercato della birra in generale. I birrifici attivi sono aumentati di circa 700 unità in soli dodici mesi, creando il 7% in più di posti di lavoro. Dati straordinari, che dunque allontanano nuovamente tutti i timori per un mercato sempre più affollato e competitivo. Come sapete però i numeri vanno interpretati e non si può ignorare che i risultati sono il frutto degli aggiustamenti compiuti dalla Brewers Association alla sua definizione di “craft beer”. Il punto, infatti, è che la popolazione statistica può variare in base ai criteri che la determinano: se la definizione diventa più inclusiva, la base di analisi sarà più ampia. Ed è proprio ciò che sta succedendo negli ultimi tempi.

La definizione della Brewers Association fu pubblicata per la prima volta nel 2006 e da allora è stata ritoccata quattro volte: la prima nel 2007, la seconda nel 2010, la terza nel 2014 e l’ultima a fine 2018. Ciò significa che dalla sua nascita è cambiata ben quattro volte in circa dieci anni. È tanto? È Poco? Dipende. Quando si stabiliscono i criteri per identificare un prodotto, ci si immagina che rimarranno immutati per un tempo ragionevolmente lungo. Cosa si intende per “ragionevolmente lungo”? La risposta dipende da mille variabili, ma diciamo che mantenere la definizione stabile per almeno cinque anni permetterebbe al settore di adattarvisi senza particolari traumi e di familiarizzare con i suoi concetti. Basta un semplice calcolo per scoprire che invece la Brewers Association ha sentito l’esigenza di effettuare modifiche molto più spesso, intervenendo su diversi aspetti della disciplina. Di contro non si può negare che il mercato della birra artigianale negli USA è cresciuto a un ritmo clamoroso, cambiando rapidamente i suoi connotati. In questo turbinio di eventi, qualsiasi definizione rischierebbe di diventare obsoleta in tempi brevissimi. Più che la frequenza di modifica, allora diventa più importante capire cosa è stato cambiato e con quali obiettivi.

La definizione del 2007

Come punto di partenza possiamo risalire alla definizione del 2007, perché fu quella che per la prima volta stabilì in maniera precisa l’idea di birra artigianale da parte della Brewers Association. Era basata su tre pilastri, riconducibili ad altrettante caratteristiche che doveva possedere il relativo birrificio: essere piccolo, indipendente e tradizionale. Nel dettaglio:

  • Piccolo –  La produzione annuale di birra deve essere inferiore ai due milioni di barili.
  • Indipendente – L’eventuale controllo di un’industria del beverage deve essere minore del 25% delle quote societarie, a meno che non sia a sua volta un birrificio craft.
  • Tradizionale – Nella gamma deve essere presente almeno una birra di punta prodotta con 100% malto, oppure almeno la metà della produzione deve essere composta di birre 100% malto.

Pur con alcune lacune, la definizione del 2007 poggiava su tre pilastri ritenuti fondamentali.

Le modifiche del 2010

Nel 2010 la Brewers Association cambiò nuovamente la sua definizione, inserendo una variazione minima ma significativa: il tetto produttivo per considerare un birrificio “piccolo” passò da due a sei milioni di barili (circa 7 milioni di ettolitri). Molti osservatori cominciarono a storcere il naso e accusarono l’associazione di aver allargato le maglie della definizione per evitare che dalla stessa uscisse Boston Beer Co., uno dei maggiori birrifici del comparto craft. Immaginate infatti come sarebbero cambiati i dati del mercato se improvvisamente dalle statistiche fosse stato necessario escludere un’azienda importante come quella proprietaria del marchio Samuel Adams. In realtà era lo stesso mercato della birra craft a essere cambiato profondamente in appena tre anni, raggiungendo numeri e dimensioni che nel 2007 ancora non erano facilmente immaginabili. La scelta della Brewers Association fu quindi giustificata dalla necessità di adattarsi ai veloci cambiamenti in corso, di cui era impossibile non darle atto.

Le modifiche del 2014

Dopo soli quattro anni la Brewers Association rimise nuovamente mano alla sua definizione, ma questa volta in maniera più evidente. Furono effettuate modifiche a ognuno dei tre “pilastri”: i primi due furono rivisti in minima parte, il terzo fu invece ripensato totalmente con ripercussioni piuttosto importanti. Il tetto dei sei milioni di barili rimase inalterato, ma nel testo fu inserita una postilla tra parentesi per spiegare che quel limite, apparentemente molto alto, rappresentava in realtà solo il 3% di tutta la birra venduta negli Stati Uniti. Anche il pilastro dell’indipendenza rimase sostanzialmente invariato e fu semplicemente riformulata la frase che ne spiegava i dettagli. Invece la parte dedicata alla “tradizione” fu profondamente modificata: venne totalmente eliminato il riferimento alla composizione della gamma del birrificio e ci si concentrò sui metodi di produzione. Quel pilastro fu riscritto così:

Tradizionale – Un birrificio la cui parte principale di produzione è costituita di birre i cui aromi derivano da ingredienti brassicoli tradizionali o innovativi e dalla loro fermentazione. Le bevande di malto aromatizzate (FMBs) non sono considerate birre.

Il nuovo testo aveva il vantaggio di superare la precedente concezione, obiettivamente arzigogolata e macchinosa. Inoltre correggeva un problema non indifferente, perché escludeva tutti quei piccoli birrifici tradizionali che ricorrevano all’impiego di succedanei del malto d’orzo per un legame con il passato e non per ridurre i costi di produzione alla stregua dell’industria. Diversi stili autoctoni americani, infatti, prevedono alte percentuali di cereali alternativi al malto come retaggio di un tempo in cui l’orzo era difficilmente reperibile e doveva essere integrato con altre fonti zuccherine. Uno degli effetti della nuova definizione fu l’inclusione del birrificio Yuengling, che nonostante fosse ancora a conduzione familiare diventò improvvisamente il più grande birrificio craft degli Stati Uniti (aumentando di conseguenza i numeri del settore).

Le modifiche del 2018

L’ultima revisione da parte della Brewers Association è stata effettuata a fine 2018 e ha riguardato, ancora una volta, l’ultimo pilastro. Anche in questo caso la modifica è stata radicale, al punto che non solo è stato cancellato completamente ogni riferimento alla tradizione, ma addirittura ha reso quasi irrilevante il terzo criterio. Nell’attuale formulazione, infatti, si stabilisce che un birrificio craft deve essere piccolo, indipendente e “birrificio”. Praticamente l’ultimo pilastro è quasi pleonastico:

Birrificio – Deve possedere una licenza TTB (dovrebbe essere analoga al nostro codice accise) e produrre birra.

Questo cambiamento, apparentemente assurdo, si spiega con la necessità di includere nella definizione tutti quei produttori che, pur essendo piccoli e indipendenti, non hanno nella birra il loro core business. Precedentemente infatti era indispensabile che la maggioranza degli introiti provenissero dalla produzione brassicola, pena l’esclusione dei prodotti dal concetto di birra artigianale. Un vincolo che è stato eliminato perché molti birrifici negli ultimi anni hanno cominciato a differenziare la propria offerta, puntando su hard seltzer, bevande alcoliche aromatizzate, sakè e fermentati vari. Il motivo di questo fenomeno? Semplice: molti grandi marchi artigianali stanno notando che la birra artigianale non tira più come prima, tendenza mostrata dalle statistiche di vendita in contrazione. Boston Beer – ancora lei – avrebbe ad esempio rischiato di essere estromessa dalle precedente definizione.

Ed eccoci arrivati al punto. Per la prima volta la rivisitazione della definizione di craft beer sembra essere stata suggerita più da valutazione difensive che dall’effettiva necessità di restare al passo coi tempi. Si può discutere se sia giusto escludere dalla concezione di birra artigianale quella prodotta da aziende che non sono primariamente birrifici – personalmente ad esempio non condivido questo approccio – ma la sensazione è che la Brewers Association per la prima volta abbia dovuto allargare le maglie della definizione per bilanciare un trend preoccupante. Sebbene l’associazione assicuri che la modifica avrà ripercussioni minime sui dati (l’aumento sarà nell’ordine dei 15.000 barili) c’è uno strano scollamento tra i numeri che emergono dai report annuali e l’effettiva evoluzione del comparto.

Come la stessa Brewers Association spiega, una definizione può e deve adattarsi ai cambiamenti del mercato. Ma è importante capire di quali cambiamenti stiamo parlando. Rincorrere un trend positivo è un conto, cercare di arginarne uno negativo ha un significato completamente diverso. Soprattutto se bisogna rinunciare a tratti distintivi e fondamentali, come quello dell’approccio tradizionale al concetto di produzione brassicola. Un elemento che la Brewers Association ha deciso di sacrificare per gli anni a venire.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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Un commento

  1. In italia la definizione “forte” c’è… sono i numeri che non tornano…

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