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Travalicare gli appassionati: un imperativo per il futuro della birra artigianale

Ritrovarsi catapultati improvvisamente in una realtà inedita permette di guardare le cose in modo diverso. È ciò che è successo a tutti noi con l’avvento della pandemia, che ha stravolto ogni aspetto delle nostre vite. Inclusa la birra artigianale, che non solo fa parte della nostra quotidianità, ma rappresenta un settore produttivo sempre più importante nel panorama nazionale. Il blocco che ha coinvolto locali, distributori e birrifici ha arrecato danni importanti a diverse aziende, ma ha anche permesso di analizzare il mercato in maniera differente rispetto al passato. A bocce ferme le valutazioni diventano più lucide e riescono a spingersi oltre l’orizzonte limitato che la routine ci impone, a causa delle sue dinamiche consolidate che tendiamo a percepire come assiomi inviolabili. E nelle tante considerazioni che si sono rincorse negli ultimi mesi, c’è un concetto forte che probabilmente influenzerà le scelte dei prossimi anni: la birra artigianale italiana deve uscire dalla nicchia degli appassionati e provare davvero – per la prima volta – ad abbracciare un pubblico più ampio.

Se seguite Cronache di Birra sapete che ho sostenuto questo pensiero almeno da quando è iniziato il lockdown. Per chi non bazzica il mondo della birra artigianale un’osservazione del genere può apparire lapalissiana, ma tra appassionati e operatori del settore suona quasi eretica. E infatti accanto a manifestazioni di approvazione, mi sono beccato critiche decise ma tutt’altro che inaspettate. Poi però ho trovato, quasi con meraviglia, una posizione pressoché analoga da parte di diversi attori del comparto: evidentemente alcune storture dell’ambiente non hanno colpito solo me, ma anche altri osservatori che lavorano quotidianamente nel settore.

La prima apertura in tal senso è arrivata nientemeno che da Unionbirrai. A inizio giugno l’associazione di categoria dei piccoli produttori ha infatti annunciato di aver raggiunto uno storico accordo con Aspiag Service, concessionaria del marchio Despar nelle zone del Triveneto e dell’Emilia-Romagna, per l’ingresso di alcune birre artigianali italiane nei rispettivi punti vendita della grande distribuzione. La partnership fu presentata da Simone Monetti, segretario nazionale di Unionbirrai, come una soluzione a supporto dei birrifici nazionali in un momento difficile per il loro business (il lockdown era finito da poche settimane). Nonostante avesse le caratteristiche di un’iniziativa estemporanea – sinceramente non so se è ancora in corso – l’accordo nacque come risposta a una constatazione maturata all’interno dell’associazione: la percezione di una fragilità del settore e dunque la necessità di ampliare i propri orizzonti per trovare canali integrativi e raggiungere consumatori meno smaliziati.

Ma Unionbirrai non è stata l’unica importante voce a sostenere questa esigenza. Come saprete recentemente è stata pubblicata la nuova edizione della Guida alle Birre d’Italia di Slow Food e nell’introduzione a firma dei due curatori, Luca Giaccone ed Eugenio Signoroni, si può leggere il seguente passaggio:

Abbiamo cercato di essere precisi ma non inutilmente tecnici, coscienti che solo così si può arrivare a un pubblico ampio e convinti che la birra artigianale, per diventare completamente matura e avere l’attenzione che merita, debba uscire dalla stretta cerchia degli appassionati.

Il fatto che una simile dichiarazione sia presente nell’introduzione dell’opera non è trascurabile, perché significa che questo aspetto è per i due autori un punto fermo dal quale partire per raccontare il segmento della birra artigianale – che è poi il fine ultimo della guida.

Ammesso e non concesso che due semplici prese di posizione siano sufficienti a delineare il futuro della birra artigianale in Italia – ma andrebbe valutato anche il peso “politico” di chi le ha assunte – è forse giunto davvero il momento di prendere familiarità con l’idea che i birrifici nazionali devono espandere il proprio bacino di utenti. Immagino sia ciò che desidera ogni produttore, ma affinché si possa realizzare occorre cambiare prospettiva e cominciare a ragionare in maniera diversa. Significa abbandonare quella comfort zone consolidatasi nel tempo, per la quale ci si rivolge esclusivamente al pubblico degli appassionati con messaggi tutti uguali. Un pubblico però assai circoscritto e che tende a premiare un numero limitato di birrifici, tanto che si percepisce un certo affanno da parte dei produttori per entrare nelle loro grazie con continue creazioni ad hoc. L’impressione è che molte aziende si profondano in uno sforzo sovrumano per acquisire fette di mercato in un contesto limitato e fragilissimo, senza cercare alternative magari più redditizie.

Questo meccanismo non può durare per sempre e rischia di mandare gambe all’aria tanti birrifici, proprio per l’inconsistenza delle dinamiche su cui poggia. Per migliorare la solidità del settore non è necessaria una rivoluzione, ma occorre integrare il modello di business con altre soluzioni che diano un certo grado di tranquillità. Siamo in tempo per riuscirci? Secondo me sì. Chi crede che in Italia la fase “modaiola” della birra artigianale sia tramontata non sbaglia. È finita l’epoca dei capannelli di bevitori fuori dalla maggior parte dei pub e dei beershop (almeno quelli romani), è concluso il periodo in cui bastava organizzare una “festa della birra artigianale” per richiamare automaticamente migliaia di curiosi. Tuttavia mi sembra che la birra artigianale sia penetrata più profondamente nella quotidianità della gente: c’è meno esaltazione, è vero, ma i bevitori di oggi sono probabilmente più consapevoli e fidelizzati. A Roma la birra artigianale è calata notevolmente nelle zone della movida, ma è aumentata nei quartieri residenziali. Come a dire che non è più l’attrazione delle uscite serali – e dunque risulta meno “appariscente” – ma è la costante della quotidianità di molti cittadini.

In conclusione mai come ora occorre muoversi verso un’ulteriore fase di maturità. Gli operatori devono cominciare a capire che il destino della birra artigianale non si gioca negli spazi degli appassionati (come i gruppi Facebook o il sito che state leggendo), ma per le strade, tra la gente comune. Quella che in questi anni è stata ignorata, derisa, talvolta allontanata. Bisogna cominciare a compiere scelte realmente imprenditoriali per la propria azienda, anche nei comportamenti di tutti i giorni. Non sono il solo a pensarla così e le possibilità per compiere il salto di qualità sono a disposizione di tutti, basta saperle sfruttare.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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4 Commenti

  1. quindi visto che la birra artigianale deve essere meno “nerd” spostiamola a Parma!! mi sembra che al posto di imparare dai propri errori si continui a perseverare…. diabolico!

    • Se ti riferisci a Birra dell’anno e compagnia, in quel caso si sposta da una fiera dedicata alla birra a una fiera dedicata all’agroalimentare in generale. Quindi sì, sulla carta si rivolge a un pubblico più variegato e meno specifico.

      • scusami Andrea ma, lavorando nel settore, non sono per nulla d’accordo. anzichè sfruttare l’indotto che finalmente iniziava nuovamente ad esserci a Rimini grazie anche alle grandi aziende, ci si sposta a Parma dove mi auguro proprio non si torni a fare un “mercatino” della birra artigianale…. il pubblico meno specifico capisce fino a lì, e non è con gettoni e gli assaggi casuali che si costruisce un futuro solido. sempre secondo la mia opinione!

        • Il rischio c’è e dovrà essere abile Unionbirrai a evitarlo. Però se parliamo di comunicazione e del tipo di pubblico che puoi raggiungere, le differenza tra Rimini e Parma mi sembrano abissali.

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