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Il suicidio comunicativo della birra artigianale italiana

Negli ultimi giorni nell’ambiente della birra artigianale si è tornati prepotentemente a parlare di comunicazione, e dei limiti che essa continua a mostrare. L’argomento è diventato d’attualità a causa di due eventi avvenuti praticamente in contemporanea e che, nonostante abbiano origini e matrici molto diverse, sollevano lo stesso atavico problema: l’incapacità del nostro settore di comunicare sé stesso oltre la ristretta cerchia degli appassionati. La prima vicenda nasce da una foto che ritrae Francesco Martucci, celebre pizzaiolo de I Masanielli di Caserta, indossare insieme al suo staff divise nuove di zecca griffate Birra del Borgo. La seconda invece è da rintracciare in una puntata del podcast Tienimi Bordone de Il Post e intitolato “Salviamo la birra artigianale dalla birra artigianale”. In entrambi i casi il nostro ambiente ne esce male, mostrando limiti che ormai probabilmente non sono più superabili nel breve e medio termine.

La questione relativa a Francesco Martucci, riportata dettagliatamente da Scatti di Gusto, è stata sollevata da Giovanni Puglisi su Facebook. Martucci è considerato da molti il miglior pizzaiolo d’Italia e gli viene unanimemente riconosciuto il merito di aver contribuito a elevare la pizza ad alimento degno di attenzione, grazie a scelte coraggiose e (all’epoca) controcorrente. Il suo nome è associato a un concetto di qualità assoluta, dunque tra gli appassionati di birra ha destato scalpore il suo flirt con Birra del Borgo. Birra del Borgo – agevola sempre ricordarlo – è un birrificio “italiano” ex artigianale, che nel 2016 è stato venduto alla più grande multinazionale del settore. Oggi è un brand del colosso AB Inbev, al pari di altri marchi come Budweiser, Corona, Stella Artois, Leffe e tanti altri. In parole povere, Birra del Borgo è birra industriale, sia da un punto di vista legislativo, sia sa quello “etico e filosofico”. Parafrasando le parole di Puglisi, è come se Martucci utilizzasse la mozzarella Santa Lucia Galbani per le sue pizze.

Com’è possibile che un pizzaiolo così attento alla qualità commetta una leggerezza del genere? Secondo Puglisi le responsabilità sono diverse. Riportiamo i passaggi più interessanti:

La colpa è nostra.
Intendo “nostra”, del settore birra artigianale. È nostra perché non sappiamo muoverci in maniera organizzata e corale, non abbiamo saputo imporre il messaggio che il nostro prodotto è una mozzarella di bufala filata a mano, mentre una birra industriale è la Santa Lucia Galbani.

La colpa è nostra. Ma la colpa è anche loro.
La colpa è di chi si rende complice dell’operato delle multinazionali e per amore del profitto sceglie un prodotto scadente (perché questo è) spacciandolo ai propri clienti per eccellenza.
La colpa è di chi sceglie solo il meglio per il proprio locale – tranne che in materia di birra, tanto i clienti non sanno un cazzo e se bevono tutto.
La colpa è dei convegni internazionali di chef, che scelgono come sponsor i peggiori prodotti dell’industria, prodotti coi peggiori ingredienti, lavorati nel peggiore dei modi.
La colpa è dei tanti “giornalisti” che scrivono di gastronomia solo trascrivendo comunicati stampa, senza conoscere e approfondire nulla riguardo a ciò che gli viene detto, senza avere idea di come si fanno le cose di cui blaterano, senza una minima nozione di cosa sia la qualità; anche per loro, una birra vale l’altra.

Nonostante la colpa sia distribuita su più soggetti, a mio avviso il peccato originale è quello descritto all’inizio, da cui derivano a cascata le aberrazioni riportate di seguito. Il limite principale, dunque, è l’incapacità della birra artigianale di comunicare sé stessa. Un’incapacità così grave ed evidente che la risposta stessa di Martucci, piena di contraddizioni, denota una comprensione superficiale di ciò che distingue una birra artigianale da un marchio di una multinazionale.

Questa pesante tara è alla base del podcast citato in apertura. Tienimi Bordone è uno dei programmi audio di punta de Il Post, testata online di assoluta qualità – e alla quale personalmente sono abbonato, ma questo è un altro discorso. Come raccontato anche da Malto Gradimento, nella puntata di giovedì scorso Matteo Bordone ha lanciato un sarcastico grido di allarme, affinché la birra artigianale sia salvata da sé stessa. Anche qui la questione centrale ricade nella capacità del settore di comunicare il proprio prodotto: da bevitore occasionale ma non approssimativo, Bordone riscontra un certo senso di inferiorità della birra artigianale nei confronti del vino e una certa difficoltà a rapportarsi con chi cerca una bevuta semplice e spensierata. Cioè esattamente ciò che la birra dovrebbe soddisfare innanzitutto. L’autore parte da una esperienza personale vissuta qualche giorno prima:

Il problema fondamentale sul quale secondo me si potrebbe intervenire è quello della comunicazione. Perché l’altro giorno sono in un locale di Nolo, quartiere a nord di Loreto (siamo a Milano ndR) […] e prendo una birra, l’unica che c’è. Dico, avete una IPA? Sì. Mi danno una IPA. La bevo un po’, sento che è di quelle molto complesse, molto corpose, con mille profumi… Dico vabbè, vabbè ormai l’ho presa… La bevo e mentre la bevo mi metto a leggere l’etichetta, perché sull’etichetta c’è scritto un sacco di roba. Ora leverò il nome della birra perché non è una questione personale, ma vi leggo quello che c’è scritto sull’etichetta, ho fatto una foto apposta:

“Nasce dalla creatività del mastro birraio e dalla nostra volontà di creare una birra ad alta fermentazione con un gusto amaro molto percettibile e profumi molto intensi. Il suo sapore inconfondibile è determinato dalla miscela di 6 luppoli, che vengono accuratamente studiati e selezionati tra bollitura e dry hopping. È una birra non astringente, che tende a soddisfare i palati di coloro che amano avere la bocca asciutta dopo il primo sorso. Si contraddistingue per il profumo intenso, l’elevata digeribilità e il colore oro carico opalescente. Durante la degustazione è percepibile l’aroma dell’amaro e del fruttato, mentre in retrolfazione si riconoscono il tono floreale, le note agrumate e il gusto dell’alcol etilico.” […]

Perché devo per forza essere bersagliato con una quantità così esorbitante di puttanate magniloquenti? Perché i produttori di birra artigianale non si fanno forza del loro “non essere” quelli dei sommelier, quelli della nobiltà, quelli delle bottiglie da 15mila euro? […] È un po’ come l’alta fedeltà, che a un certo punto da metà degli anni Ottanta è diventata un mondo esoterico di paroloni in cui nessuno capiva niente e il pubblico se n’è andato. […] Secondo me chi produce birra artigianale potrebbe anche “fare meno” […] probabilmente sarebbe un bene per tutti.

Le parole di Bordone non sembrano diverse da quelle ascoltate in questi anni da tanti osservatori del nostro ambiente, non ultimo Visintin. Siamo sempre lì e non ne usciamo. Per quanto sia evidente che la descrizione in etichetta è partorita da chi di birra non sa niente, sono proprio quelle parole che poi arrivano al giornalista, e dunque al consumatore medio. Ora, da un giornalista ci si aspetterebbe un approfondimento diverso, ci si aspetterebbe che si faccia un’idea della birra artigianale nei luoghi deputati a questa bevanda (pub, beershop), non nel primo bistrot à la page di Milano – cioè dove immagino Bordone abbia avuto questo incontro ravvicinato con la sua magniloquente IPA. Ma questo non è importante, perché ciò che importa davvero è che la stessa esperienza potrebbe essere capitata a un consumatore medio trovatosi nella stessa situazione.

Noi sappiamo che la birra artigianale non è quella, che i microbirrifici non producono solo birre “molto complesse, molto corpose, con mille profumi”. Ma lo sappiamo noi e ce lo ripetiamo fino allo sfinimento, però evidentemente là fuori c’è un’idea ben diversa. E sapete perché? Perché nei luoghi di massa la vera birra artigianale non ci è mai arrivata. Non è arrivata nelle pizzerie, non è arrivata nei ristoranti, non è arrivata nei supermercati. Ha preferito rimanere confinata nei luoghi confortevoli degli amici, modellandosi su dinamiche sempre identiche a sé stesse e limitate in termini numerici. Ha lasciato enorme campo libero a chi è stato lesto a soddisfare la curiosità del pubblico con i suoi prodotti crafty o con i suoi progetti insensati. Ha permesso che l’interesse per una birra “diversa” fosse appagata da queste realtà.

Chi in questi anni ha provato strade diverse, cercando mercati più ampi, è stato beffeggiato e boicottato. Il pregiudizio culturale con cui il pubblico di massa oggi considera la birra artigianale è il frutto di un altro pregiudizio, quello del settore verso chi non si è allineato. Se hai una sala cottura più grande della media sei additato come industriale. Se proponi una birra industriale accanto a una decina di spine artigianali sei considerato un traditore. Se solo provi a menzionare la grande distribuzione passi per eretico. Se non sostieni il sacro postulato della freschezza della birra o della catena del freddo non capisci nulla. Tutto in nome del concetto di qualità assoluta, che spesso è giusto e sacrosanto, ma talvolta è uno specchietto per le allodole – lecito anche questo, per carità – con cui si perseguono i propri interessi.

In termini di comunicazione la birra artigianale ha fallito su tutti i fronti. In venticinque anni non è riuscita a spiegare sé stessa né al grande pubblico, né al mondo dell’enogastronomia. E lo ha fatto non occupando deliberatamente quei canali con cui raggiungere entrambi i target. Per paura, pigrizia e incapacità. Ma anche (e temo soprattutto) per un freno culturale che poteva benissimo essere compreso agli albori del movimento, ma che oggi non è più giustificabile.

La notizia positiva, se così la si può definire, è che c’è poco da affannarsi: ormai il treno è passato e il fallimento è conclamato. Non rimane altro che impegnarsi sul lungo termine, per favorire un cambio culturale nelle nuove generazioni. Trasformando i pub in luoghi di socializzazione come in altri paesi, agendo sul territorio per creare comunità di fedeli bevitori. Nutrire un nuovo pubblico consapevole dell’anima più profonda della nostra bevanda e che possa apprezzarla senza pregiudizi o false credenze.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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28 Commenti

  1. Ottimo intervento che dovrebbe far riflettere i produttori nell’adottare una comunicazione più corale ed aggressiva ma semplice.
    Facciamo un prodotto ottimo e naturale.
    L’industria fa un prodotto talora gradevole ma con modalità industriali .
    I pub sono luoghi ove si dovrebbe consumare buona birra (e tanti bravi professionisti danno da fare per questo) e non templi esoterico o luna Park.
    Abbiamo fatto tanto ma ora siamo in prima linea e dobbiamo (tutti) mostrarci all’altezza

  2. Una riflessione “di pancia” che probabilmente andrebbe sviscerata meglio: nel mondo del vino è accettata e sdoganata l’esistenza di centinaia di sfaccettature, dal tavernello alle bottiglie da 15mila €, passando per il nebbiolo da 30€ al ristorante al vino da pasto che beve mio padre a pranzo. E tutto viene chiamato semplicemente col suo nome: vino.
    Nella birra questo non succede. O è artigianale, o è industriale. Il concetto di “qualità”, di validità assoluta del prodotto, il rapporto qualità prezzo, sembrano essere (almeno dal mio punto di vista) completamente subordinati all’appartenenza ad una delle due categorie di cui sopra. Con relative tifoserie a favore o contrarie e con annesso filtro preventivo da questa o da quella parte. La birra non ha niente in meno del vino, ma a pensarci meglio il fatto stesso di porsi la domanda è insensato. Quindi il mondo dei formaggi soffre di inferiorità rispetto a quello dei salumi o degli oli? Intendo, ogni categoria alimentare ha le sue decine di declinazioni e applicazioni. Dalla birra “industriale” e di massa alla sommellerie, c’è un mondo molto vasto li in mezzo, al pari di quello del vino, dei formaggi, dei salumi, del caffè e di molti altri prodotti dell’uomo. Personalmente credo che il podcast di Matteo Bordone (molto bello e divertente) abbia evidenziato un aspetto, una chiave di lettura di una parte del comparto artigianale, ma non “Il mondo birra artigianale” e tantomeno “Il mondo birra”. Per ogni etichetta piena di magniloquenza ce ne sono altrettante minimal con appena il nome dello stile, o altre senza nemmeno lo stile, o altre ancora con lo stile ma sbagliato e questa cosa potrebbe andare avanti in eterno probabilmente. Credo che banalmente vada accettato che nella birra cosi come nel vino, non esista uniformità di produzione/pensiero/comunicazione/approccio al prodotto.

    • Due cose. La dicotomia di cui parli in effetti non c’è nei paesi in cui la birra è la bevanda nazionale, come il vino da noi. Da noi esiste per ragioni storiche e culturali ed è normale che si sia sviluppata. Il problema è che si è estesa anche ai canali di vendita. Per quanto riguarda la seconda parte della tua riflessione, è vero che esistono mille declinazioni diverse di birra artigianale, ma quella che arriva agli osservatori esterni è sempre la stessa. È così da anni, quindi evidentemente c’è qualcosa che si inceppa nel meccanismo di percezione da parte del grande pubblico.

      • Entrambe osservazioni verissime.
        Meriterebbero di essere discusse più a fondo ma colgo lo spunto per citare due aspetti che hai toccato: “canali di vendita” e “grande pubblico”.
        Personalmente credo che, esclusa la nicchia (la faccio stringata per riassumere ma intendo gli addetti ai lavori, i gestori di locali dedicati, gli appassionati veri, etc), ci sia una grandissima confusione nel grande pubblico. E per grande pubblico intendo anche negli stessi operatori dei canali di vendita. E’ una confusione in cui una parte di settore ci sguazza serenamente e anzi, probabilmente la alimenta con i vari filtrati a freddo & co.
        Un esempio banale: questo weekend ho partecipato al Cheese di Bra. Mentre aspettavo un amico, finisco nella piazza principale e trovo un bar (quindi un locale aperto tutto l’anno, servito da un distributore di zona, con la sua clientela, etc) con banco birra all’esterno che mi serve Lowenbrau Oktoberfest alla spina. Incuriosito dalla scelta scambio due parole con l’esercente, il quale mi dice che alla sua richiesta di avere un prodotto “diverso” in linea con l’evento Cheese, l’agente commerciale del suo fornitore ha proposto Lowenbrau Oktoberfest.
        Sembra banale, ma ho riconosciuto nell’esercente l’onestà e la curiosità di voler realmente un prodotto in linea con la manifestazione (quindi artigianalità, valore del prodotto, etc), e nulla vieta che lo stesso agente di vendita non fosse convinto della bontà della sua scelta nel proporgli Lowenbrau Oktoberfest, perchè magari nella sua azienda gli è stata raccontata cosi. Questo però porta alla fine ad una specie di corto circuito, in quanto il consumatore finale , quello che poi la birra la beve, tenderà ad associare Lowenbrau Oktoberfest al concetto di artigianalità, soprattutto se l’esercente racconta la stessa storia raccontata a me.
        Riallacciandomi a Grande pubblico e Canali di vendita, da dove dovrebbe partire il filo rosso che porta il distributore, l’agente di commercio di turno e l’esercente a riconoscere la differenza (in termini di qualità, di artigianalità, di valore) tra la Lowenbrau Oktoberfest e una birra realmente artigianale ?
        (mi scuso, forse ho sforato dal pezzo originale, anche se sempre di comunicazione si parla)
        (ps, ho citato Lowenbrau Oktoberfest non per denigrare o che, assolutamente. E’ solo un esempio recente che mi è capitato)

        • Non ti scusare, osservazione pienamente legittima e “in topic”. La risposta alla tua domanda è banale e complicata allo stesso tempo. Banale perché viene da rispondere che il filo rosso dovrebbe partire dalla testa, cioè dai birrifici. Molti dei quali secondo me in questi anni hanno spesso ignorato certi canali: ignorandoli non hanno creato aspettative e cultura lungo quella filiera, con le conseguenze a cascata che hai illustrato. In altre parole la mia tesi è che oggi la birra artigianale è percepita in maniera confusa dalla ristorazione e dal grande pubblico perché non ha mai realmente voluto occupare quei canali. Ovviamente poi entrano in gioco diverse considerazioni su vari livelli, perciò la risposta è più complessa di così. Però ciò che ho notato in questi anni è stata la trascuratezza (vuoi per incapacità e mancanza di mezzi, ma spesso per pregiudizi) nel rivolgersi a un certo tipo di pubblico.

  3. Oliviero Giberti

    L’articolo ha un che di vero, indubbiamente, ma c’è anche un altro aspetto importante: spesso i grandi marchi industriali pagano per entrare, non è certo una novità che anticipino un bel po’ di soldi per entrare in un locale, e se quest’ultimo ha forza e nome a sufficienza di soldi ne prende un bel po’. Succede nei piccoli bar, figuriamoci in un locale che fa numeri. E da questo punto i vista possiamo diventare comunicativi fino a che vogliamo, se poi un locale per mettere le mie birre mi chiede dei soldi ciao, ho già perso in partenza.

    • Ciao Oliviero. I grandi marchi entrano anche nei pub, ma non per questo tutti i pub hanno birra industriale. C’è chi fa scelte diverse e preferisce rinunciare a certi vantaggi per averne altri. Magari perché preferisce puntare su produttori artigianali. Succede lo stesso in ristoranti, pizzerie, ecc. solo che la birra in questi casi raramente entra nel discorso.

      • Oliviero Giberti

        Certo, ma ero più generico e mi riferivo all’esempio dell’articolo. Dubito fortemente che Birra del Borgo sia entrata dai Masanielli perchè è buona o comunica bene, no? Poi magari è così.
        Per fortuna ci sono locali, pizzerie, ristoranti, distributori e pub che vogliono parlare del prodotto, ma i tanti problemi comunicativi che abbiamo, perchè ne abbiamo, non è raro che affondino di fronte a questo aspetto.
        Che abbiamo tanto da lavorare sull’aspetto comunicativo mi trovi d’accordo al 110%, ma non ti nego che mi cadono le braccia di fronte a queste cose.
        Se poi aggiungiamo che da chi mi aspetto promuova i piccoli produttori parla di marchi industriali allora qualcosa va davvero storto.

  4. Io vado controcorrente.
    Bevo da anni birra “artigianale” prodotta dalla miriade di birrifici nati nel bel paese.
    Credo si possa affermare con certezza ed in comune accordo, che artigianale non significa “buono” o “di qualità”.
    Per ogni Hellles, Sour, Blanche, Berliner Weisse, ecc. “artigianali” assaggiate e trovate di livello, quante birre mediocri, difettate, piatte, e diciamolo, peggio delle industriali, ho trovato? Direi non poche.
    E questo come concilia con chi si arroga il diritto di definire il prodotto del proprio comparto (artigianale) “di qualità” e di definire il prodotto dell’altra sponda (la birra industriale) “scadente”?
    I paragoni con altri prodotti non è azzeccato, perchè se è vero che la mozzarella di bufala non è un galbanino, è altrettanto vero che su 10 mozzarelle di 10 produttori, ne trovi 9 di livello, perchè immagino sia un settore maturo in cui il mercato ha premiato i produttori di qualità facendo chiudere bottega a quelli più scadenti.
    Ecco, la verità è che per quanto riguarda la birra “artigianale”, siamo ben lontani da quella maturità, e che quindi il settore, inteso come l’insieme di tutti i produttori, non sia nella condizione di auto-definirsi “di qualità” fin tanto che molti dei prodotti presenti sul mercato siano l’opposto, ovvero scadenti e peggio delle birre industriali.

    Ciao
    Carlo

    • La qualità non c’entra nulla. Se sei uno chef che vuole valorizzare i piccoli produttori indipendenti, e parlo non di birra ma di qualsiasi prodotto alimentare, non ti rivolgi alle multinazionali. Sarebbe un controsenso. Cercherai il fornitore migliore e più adatto alle tue esigenze, ma sempre tra i piccoli produttori indipendenti.

      • Beh questo è quello che ci si potrebbe aspettare, ma non sempre è così, e infatti credo questa polemica lo dimostri.
        Resto dell’idea che non è possibile definire “scadenti” le birre di Birra del Borgo per il semplice fatto che l’azienda sia passata di mano.
        Fino a prima del Covid ho bevuto, alla spina, delle birre di livello e migliori di tante “artigianali”.
        Ciao
        Carlo

        • Nessuno le ha definite scadenti, lungi da me fare un discorso di qualità.
          Però smettiamola anche di considerarle “migliori di tante artigianali”. Le mie ultime esperienze con BdB (presso i loro locali, non al supermercato) sono state pessime.

  5. Per rendere meglio l’idea, commentando questa frase:
    “il nostro prodotto è una mozzarella di bufala filata a mano, mentre una birra industriale è la Santa Lucia Galbani”
    E’ senz’altro da riconoscere il merito di impegnarsi nel fare una mozzarella di bufala filata a mano, ma se il prodotto finale non sempre è così buono, rimane un merito fine a se stesso.
    Per quello che ho potuto consatare con la mia esperienza, posso dire che insieme a tante buone birre artigianali ci sono anche tante ciofeche di cui si potrebbe fare volentieri a meno.
    Perchè queste ciofeche finiscono nelle spine dei pub?

    Forse perchè, per dirne una, nei contratti che si stipulano coi fornitori è previsto che insieme alla birra X che chiedi tu (publican) devi anche prendere la birra Y che propongo io (fornitore)?

    Quando entro in un locale, il più delle volte quando leggo l’elenco delle birre in mescita, ho come l’impressione che siano state attaccate quelle che il fornitore ha portato, magari anche sconosciute allo stesso gestiore del locale che le pone in mescita senza averle mai assaggiate.

    Dov’è finita la figura così decisiva del publican tanto declamata anni fa, colui che “sceglie” le creature da attaccare alla proprie spine e da servire ai clienti?

    Ciao
    Carlo

  6. Ho avuto modo di assaggiare le birre di BdB in tempi non sospetti, cioè prima che diventasse “industriale”: non è sicuramente un birrificio che mi ha lasciato un buon ricordo. Detto questo, mi ritrovo molto nelle parole di Carlo, artigianale non vuol dire per forza birra di qualità, anzi, in questi anni in cui tutti si buttano a capofitto in questo business (perché fondamentalmente di questo si tratta), è molto facile trovare delle birre di cui si potrebbe fare volentieri a meno. E non mi stancherò mai di dirlo, a prezzi troppo alti. Quindi meno etichette e lattine improbabili e più qualità, grazie. Io cerco di evitare un sacco di improvvisati facendomi la mia birra in casa, prosit.

  7. Bordone poteva forse essere più decoroso e meno strafottente con la frase “puttanate magniloquenti”, non capisco dove voglia arrivare..dal suo discorso , probabilmente poco informato, si evince che la birra artigianale “se la tira troppo”.. ha preso una ipa complessa,corposa e con grandi profumi, ma cosa si aspetta uno da una ipa? Che sia scialba e inodore? Bottigle da 15mila euro poi, qui si va sul ridicolo..molto probabilmente nemmeno è informato delle spese di un birrificio artigianale.

  8. Volevo solo lasciare un link di un articolo scritto su identità golose, di un evento bdb riguardante uno degli argomenti dell’articolo. Mi trovo perfettamente d’accordo con le osservazioni fatte nell’articolo. Ritengo anche che sia arrivato il momento di affrontare questi temi anche troppo ignorati dal settore. Di seguito il link.
    https://reportergourmet.com/225182/francesco-martucci-e-birra-del-borgo-stop-alle-polemiche-ecco-come-andato-secondo-noi-levento-di-identita-golose.html

    • Io invece, con tutto il rispetto, trovo affascinante la disinvoltura con cui il “settore” parla di birra anche quando ha conoscenze estremamente limitate. Io non mi metterei mai a scrivere di vino in quei termini, ma tant’è…

  9. Dopo aver letto la replica del re dei pizzaioli a Giovanni Puglisi su Facebook, credo che questo articolo dovrebbe assumere il seguente titolo: Il suicidio comunicativo di Francesco Martucci.

  10. Si scrive “se stessa” senza accento. Ricorre almeno 3 volte lo stesso errore. Il succo c’è ma anche la forma va curata. Buone bevute!

  11. Forse l’ha già detto qualcun’altro, ma sul sito dei Masanielli nella carta delle birre c’è Maestri del Sannio, Almond, Canediguerra, Lambrate, dell’Aspide. Avrà pure BdB alla spina ma almeno dal menù non mi sembra del tutto indifferente alla birra artigianale italiana, sempre che quella carta sia aggiornata e corretta.
    Magari mi sbaglio.

  12. senza che nessuno me ne voglia, mi sento di dire che accostare birra del borgo alla mozzarella in busta o ancora peggio alla corona mi pare un po’ tanto…Detto questo siamo proprio sicuri che nonostante i tanti riconoscimenti, ai masianelli pongano così tanta attenzione ai prodotti che vendono? nel loro menu fra le birre internazionali hanno messo un prodotto di Almond (senza 22) ed uno di Lambrate notissimi birrifici sudafricani, oltre a prodotti più di nicchia come una ottima “LAMBRIC” di Cantillon. Devo ammettere però che nonostante qualche leggerezza nella scrittura, trovo la carta delle birre di Masianelli (ricordiamoci che per quanto di livello stiamo sempre parlando di una pizzeria) sia davvero estesa, attenta al territorio e sicuramente molto sopra la media.
    P.S. mi facevo una domanda, ma se un piccolo birrificio dovesse avere al proprio interno come socio di capitale il proprio distributore, tipo Partesa, Doreca o anche uno più piccolo sarebbe sempre da considerasi artigianale?

    • Rispetto al tuo P.S., la legge afferma che l’assenza di dipendenza si ha quando il controllo è da parte di un altro birrificio. Quindi se le quote sono in mano a un distributore non ci sono problemi – di casi in Italia ce ne sono diversi – a meno che lo stesso distributore non sia l’espressione diretta di un birrificio industriale (tipo Hibu – Dibevit – Heineken).

  13. Un problema di comunicazione per me piuttosto grave è il fatto di aver legato la birra artigianale all’innovazione esasperata
    Passa molto l’idea tra i consumatori poco interessanti all’argomento che la birra artigianale sia “strana” prima che buona.
    c’è una frase nell’articolo che spiega bene questo ed è : “Dovreste capire che una fascia di clienti non gradisce l’artigianale”
    frase sentita spesso su cui riflettere

  14. Io non sono così pessimista. Mi sembra che la vera birra artigianale sia sempre più spesso disponibile nelle pizzerie (caso aneddotico che vale quel che vale, sono stato settimana scorsa in una birreria che offriva due birre di Alder tra le opzioni, ma potrei citare diversi altri casi nella provincie lombarde a nord di Milano). Non so se questo sia un effetto passeggero dovuto alla rimonta delle birre a bassa fermentazione, ma non credo sia così, perché vedo una certa continuità nell’andamento. Un caso emblematico che credo vada la pena segnalare è la pizzeria Il Rito aperta nel febbraio 2020 a Carate Brianza (non il massimo del tempismo, e nonostante tutto operazione di successo) in cui la birra artigianale di qualità, offerta in più spine e in diverse opzioni in bottiglia ha la stessa dignità del vino (lo stesso proprietario aveva già sperimentato con successo l’offerta di birra artigianale di qualità nella sua catena Mystic Burger). Chiaramente la mia visione non è statisticamente significativa, perché io vivo nella mia bolla e seleziono i locali da frequentare proprio in base a criteri come questo, quindi è evidente il bias. Tuttavia l’ottimismo credo sia giustificato dall’aumento di opzioni in questo senso (ho visto anche frigoriferi pieni di ottima birra artigianale da un gelataio, gelataio con tre coni nella guida Gambero Rosso, magari non proprio significativo del panorama medio).

    Riguardo ai casi citati, Bordone è per sua natura superficiale e supponente, forse la sua esperienza vale proprio per questo, come giustamente riportato nell’articolo potrebbe essere rappresentativo di una fetta consistente di consumatori. Ma anche qui, si tratta di esperienza aneddotica, se non che Bordone per la professione che fa ha il potere di amplificarla, ma non gli darei un peso eccessivo. L’indole ombelicale di Bordone potrebbe benissimo portarlo a trattare di ascensori, lavatrici, scolapasta, caviale, allo stesso modo, partendo cioè da un evento di esperienza personale assurto a legge universale nel festival dell’induttivismo. Ecco, io magari non lo prenderei troppo sul serio.

    Non nego comunque che ci sia un problema di comunicazione intorno alla birra artigianale, ma per certi versi è fisiologico ed umano data la recente introduzione nella cultura italiana. Poi passa.

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