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Se anche le multinazionali abbandonano i birrifici craft: è la fine della birra artigianale in Italia?

L’inizio del 2022 per la birra italiana è stato scandito dalle mosse dell’industria e in particolare dall’apparente disimpegno delle multinazionali nei confronti di alcuni birrifici craft acquistati in passato. Prima è arrivata la cessione del marchio Hibu da parte di Heineken: da gennaio i nuovi proprietari sono Tommaso Norsa e Raimondo Cetani, cioè proprio coloro che quindici anni fa fondarono l’azienda, per poi venderla al colosso olandese nel 2017. Poi è arrivata la notizia del profondo riassetto imposto da AB Inbev a Birra del Borgo, con il licenziamento di un quarantina di dipendenti, la dismissione dei reparti commerciale e marketing, la chiusura di diversi locali e la cessione del marchio Collerosso, anch’esso protagonista di un “ritorno alle origini” grazie al subentro di Matteo Corazza (birraio di Birra del Borgo sin dalle origini del birrificio). Queste due vicende piuttosto clamorose hanno fatto scattare un nuovo campanello di allarme rispetto al presunto calo di popolarità che la birra artigianale sta avendo in Italia. Il ragionamento è più o meno questo: “Se neanche l’industria si interessa più a noi, allora siamo davvero ai saluti finali”. Ma è davvero ciò che sta succedendo?

La disfatta delle strategie dell’industria

Innanzitutto è bene ripetere che alla base di queste scelte dell’industria c’è una strategia conservativa, dettata dai tempi che stiamo vivendo. In un periodo di grandi incertezze è naturale che i colossi del settore si concentrino sui marchi che offrono più sicurezze, ossia quelli mainstream. L’incertezza suggerisce di evitare il superfluo e di limitare le sperimentazioni: nelle logiche delle multinazionali questo aspetto è chiaramente incarnato dalla birra artigianale. Sarebbe però superficiale ridurre ciò che sta accadendo a una lettura tanto immediata, perché, così come in altri mercati, la pandemia non ha fatto altro che acuire e accelerare dinamiche già in atto. Quindi è pacifico supporre che in condizioni normali avremmo vissuto le stesse vicende, dovendo magari attendere solo qualche mese o anno in più.

Ciò che stiamo osservando però non deve essere considerato tanto il fallimento della birra artigianale italiana, quanto la disfatta delle strategie industriali messe in campo tra il 2016 e il 2017, quando cioè quattro birrifici craft passarono sotto il controllo delle multinazionali. Come altri osservatori, all’epoca sollevammo diversi dubbi sull’efficacia di certe operazioni, considerando le dimensioni lillupuziane del comparto artigianale rispetto a quello di altre nazioni, USA in testa, dove le acquisizioni stavano andando avanti da anni con presupposti ed evoluzioni ben differenti. A ben vedere l’unica mossa un minimo sensata ci sembrò quella di AB Inbev con Birra del Borgo – e attenzione, non crediate che in questi giorni si stia necessariamente celebrando la sua caporetto – mentre le altre acquisizioni ci apparvero compiute più per spirito di emulazione che per una chiara visione aziendale.

I casi Birrificio del Ducato, Birradamare e Hibu

Dopo circa cinque anni i nodi sono venuti al pettine. Dei quattro birrifici artigianali acquistati all’epoca, tre hanno rapidamente visto uscire di scena i loro fondatori. In un bell’articolo di Beeer Mag viene ripercorso l’intero fenomeno, con le parole dei loro protagonisti. Ad esempio Elio Miceli di Birradamare racconta così la cessione al gigante americano Molson Coors, avvenuta nel 2017:

In quel momento l’industria probabilmente voleva affermarsi nel settore artigianale e cominciò, invece di partire da zero, a puntare su progetti già avviati come il nostro. […] Dopo aver venduto a Molson Coors abbiamo provato a condurre l’azienda con loro, ma immediate divergenze di scopo e di posizionamento fuori dal mondo agricolo ci hanno allontanato definitivamente e, dopo due anni, abbiamo lasciato Birradamare/Molson.

Le stesse dinamiche si verificarono per Leonardo Di Vincenzo, uscito da Birra del Borgo nel 2019, e Giovanni Campari, che lasciò il Birrificio del Ducato nel 2020. Oggi la situazione di Birradamare e Birrificio del Ducato è piuttosto nebulosa, almeno a livello di reperibilità dei prodotti. Come facilmente preventivabile sono usciti dal giro dei locali craft, ma anche negli altri canali sembrano arrancare. In particolare prima della cessione a Molson Coors, Birradamare poteva godere di una capillare distribuzione in canali horeca “alternativi” per la birra artigianale, come centinaia di bar e ristoranti di Roma e dintorni. Oggi la sua presenza si è assottigliata in maniera radicale e occupa timidamente solo gli scaffali di alcuni supermercati.

L’evoluzione (anzi, l’involuzione) di Birrificio del Ducato e Birradamare, nonché la cessione di Hibu ai suoi ex proprietari, dimostrano come l’industria si sia gettata a capofitto nel segmento craft senza idee precise o comunque con una visione dei prodotti artigianali rivelatasi profondamente sbagliata. È successo tutto molto in fretta, come per non rimanere indietro rispetto all’acquisizione di Birra del Borgo da parte di AB Inbev, che nel 2016 ruppe gli indugi e decretò anche in Italia l’inizio del periodo dello shopping nel settore craft. Un periodo che però è durato poco, perché dopo i fuochi d’artificio iniziali tutto si è spento: in seguito alla cessione di Hibu nel 2017 non sono state registrate altre operazioni del genere. Segno che forse le scelte furono dettate più dal frenesia del momento che da calcoli realmente fondati.

Il caso Birra del Borgo

Nonostante le notizie provenienti in questi giorni da Borgorose, il caso Birra del Borgo ci sembra leggermente diverso. L’impressione è che AB Inbev non voglia abbandonare il marchio laziale, bensì piegarlo alla sua visione del mercato. A posteriori possiamo affermare che in questi anni è come se Birra del Borgo abbia avuto una doppia anima: da un lato quella rispondente alla visione originale di Leonardo Di Vincenzo, dall’altro quella figlia dei freddi calcoli della multinazionale. Così se da una parte AB Inbev ha continuato a investire in collaborazioni prestigiose (Bonci, Pezzetta, Romito, Beck), aperture di locali e un certo ammiccamento al mondo gastronomico, dall’altra ha trasformato la Lisa in una Lager da battaglia, con cui attaccare il canale gdo e il mercato britannico, delocalizzandone la produzione per abbatterne i costi. Almeno inizialmente il colosso non ha tradito l’anima di Birra del Borgo, ma ha provato a sostenerla per vedere fino a dove avrebbe potuto spingersi.

Oggi sappiamo che quella visione non si è spinta troppo lontano. Per le logiche di una multinazionale sviluppare un marchio attorno a certe dinamiche è poco remunerativo e il covid ha semplicemente reso più urgente questa valutazione. Passato un lustro e complice un periodo di pesanti incertezze, AB Inbev ha deciso di trasformare Birra del Borgo in un brand facilmente asservibile alle proprie esigenze di mercato, spogliandolo di tutti quei valori che ne avevano segnato l’evoluzione sin dalla sua nascita. Questa scelta potrebbe rivelarsi vincente in futuro, oppure fallire miseramente: in ogni caso al momento AB Inbev sembra voler rilanciare il marchio, non abbandonarlo. Considerazione che purtroppo non cambia la situazione dei dipendenti che hanno ricevuto la lettera di licenziamento negli scorsi giorni e che ora stanno passando al contrattacco.

Siamo davvero ai saluti finali?

Le multinazionali stanno dunque rivendendo il loro piani nel comparto artigianale non perché questo non sia più interessante, ma perché è evidentemente incompatibile con la loro visione del mercato. La situazione non era matura cinque anni fa e non lo è tuttora: pensare di replicare quanto avvenuto negli Stati Uniti e in altre realtà molto più evolute della nostra è al limite della follia. Sicuramente è passato il momento della moda della birra artigianale, quel periodo in cui bastava organizzare un evento a tema per richiamare migliaia di curiosi e neofiti. E in cui bastava magari trovare l’aggancio giusto per convincere una multinazionale a sborsare qualche milione di euro per accaparrarsi un marchio craft. Quella fase della birra artigianale italiana è finita, ma non è detto che sia un male.

Se è vero che la birra artigianale ha abbandonato i luoghi della “movida” – termine detestabile, ma che rende bene l’idea – è anche vero che sta conquistando nuovi spazi, più intimi e utili nel lungo periodo. Negli ultimi anni in una città come Roma sono sorti diversi pub di quartiere, con una clientela fedele che beve con frequenza birra artigianale per gusto personale, non perché lo fanno tutti. L’interesse nei confronti del segmento craft non è scemato, anzi: mai come ora diverse aziende che orbitano intorno al settore stanno investendo per farsi conoscere da produttori, distributori e rivenditori. I consumi di birra sono aumentati del 25% negli ultimi dieci anni e il trend sembra destinato a continuare verso un’ascesa impensabile fino a qualche tempo fa.

Insomma, le mosse delle multinazionali non sono e non possono essere la cartina di tornasole per misurare la salute del nostro movimento. Da un certo punto di vista il periodo che stiamo vivendo è molto più entusiasmante di quello febbrile, sovreccitato e sicuramente fuorviante di qualche anno fa.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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4 Commenti

  1. Le multinazionali aggrediscono i mercati dalla loro punto di vista, su scala nazionale. I birrifici artigianali, in Italia, sono invece realtà legate profondamente ai territori, che si fanno strada in maniera capillare partendo dai mercati locali. E difficilmente riescono, da soli, ad affrontare un’espansione significativa verso il mercato extraregionale ed estero . Le multinazionali possono anche provare a tirar su una realtà artigianale, ma la verità è che è più comodo e semplice rilevare il marchio e andare avanti con le metodologie delle grandi industrie. La diversificazione dell’offerta attraverso lo sviluppo delle filiere agricole locali, anche mediante tutele di marchi dall’impronta geografici, nonché lo sviluppo di normative regionali volte a sostenere il settore e a regolamentare il turismo brassicolo, saranno la chiave di volta della prossima evoluzione del movimento birrario italiano; di questo ne sono certo. Da diverso tempo seguo la scena brassicola Toscana dal punto di vista istituzionale e di comparto, tra cinque anni vedremo i primi frutti di questo lavoro, e anche le altre Regioni sono indirizzate in tal senso. Bell’articolo, mi è piaciuto. La storia di queste recenti alienazioni di storico birrifici che tornano all’artigianale mi ha in effetti colpito e questa analisi è senza dubbio interessante e plausibile.

    • Grazie Davide. Molto giusta la considerazione circa la “comodità” di rilevare un marchio e poi piegarlo alle proprie esigenze. Peccato che spesso le due cose non siano compatibili. Tengo in sospeso il giudizio su Birra del Borgo perché secondo me AB Inbev ci ha visto lungo nel creare la Lisa e veicolare le connotazioni del marchio BdB su una Lager “italiana” per il mercato estero. Staremo a vedere…

      • Ho amato molto il progetto di Leonardo Di Vincenzo. E sono felice di sapere che Matteo Corazza ha rilevato Collerosso. Spero che Birra del Borgo riesca a non perdersi in questo momento così particolare della sua storia.

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