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Di “chilometro zero” e di altri concetti modaioli legati alla birra

Uno dei primi concetti che si apprendono quando si iniziano a conoscere le produzioni artigianali è che il mondo della birra è pieno di falsi miti e cattive abitudini. Se leggete questo blog saprete già che una birra non va servita ghiacciata, che la schiuma gioca un ruolo fondamentale (e quindi deve esserci), che non ha senso ordinare una birra in base al suo colore. L’elenco è ancora lungo e può essere considerato come una lista di “comandamenti al contrario” che chi si avvicina al settore impara a conoscere a memoria. Negli ultimi anni tuttavia si sono sviluppati intorno alla birra artigianale dei concetti fuorvianti, di cui molti birrifici si sono appropriati (in modo più o meno strumentale) per cavalcare le mode del momento. Mi riferisco a tendenze quali quelle del “chilometro zero” o dello “sviluppo sostenibile”, associate spesso con troppa superficialità alla birra. Non sono sbagliate in partenza, ma richiedono un approfondimento per capire cosa davvero significhino nella produzione brassicola.

Chilometro zero

Secondo Wikipedia “il chilometro zero è una filosofia di consumo che consiste nell’acquisto di prodotti agricoli direttamente dal produttore senza passaggi intermedi”. È un fenomeno che nasce con l’intento di riscoprire l’identità territoriale in contrapposizione all’omologazione dettata dalla grande distribuzione. Ha ottenuto grande successo nel settore gastronomico, che lo ha fatto proprio rivalutando i piatti della tradizione e utilizzando materie prime prodotte localmente. Questi elementi, oltre alle sue ripercussioni sull’ambiente (ridotta emissione di Co2), ne hanno decretato il successo, rendendolo uno dei fenomeni più rivoluzionari dei nostri tempi.

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Se associato al mondo brassicolo, il concetto dovrebbe indicare birre realizzate esclusivamente con ingredienti locali. Questo in Italia non succede quasi mai, perché, tra luppolo e malto d’orzo, almeno una materia prima arriva quasi sempre da molto lontano. Ma davvero da molto lontano, cioè dall’estero… altro che chilometro zero. E anche quando la provenienza è italiana, difficilmente l’ingrediente arriva da vicino: tranne rari casi, quindi, l’espressione è usata in maniera del tutto sbagliata. Per non parlare poi di chi usa questo concetto per sottolineare la presenza nelle proprie birre di un ingrediente particolare legato al territorio. Dimenticando curiosamente la provenienza di tutte le altre materie prime.

Sviluppo sostenibile

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Questo concetto, molto complesso, è diventato di dominio pubblico in un’accezione semplificata, indicando processi produttivi e imprenditoriali compatibili con esigenze di ecologia. Ogni tanto prova a fare timidamente capolino anche nel settore brassicolo, più che altro attraverso le strategie di comunicazione dei birrifici, che provano a cavalcare uno dei tormentoni più amati dagli uffici di marketing di tutto il mondo. Ed ecco allora che i produttori si arrovellano per limare l’impatto ambientale di bottiglie, etichette, lattine e altri elementi di contorno, dimenticandosi che la produzione di birra è un’attività che tende a sprecare tantissime materie prime, in particolare acqua.

I dati in questo senso sono inclementi: per ogni gallone di birra prodotta bisogna utilizzare dai sei agli otto galloni di acqua. Un rapporto estremamente sbilanciato, che non lascia dubbi sull’impatto ambientale della produzione brassicola. E questo senza tenere conto di altre variabili non meno importanti. Produrre birra non è un’attività ecologica, almeno non con le tecnologie a disposizione dei microbirrifici. È una verità con la quale ho imparato a convivere in questi anni, perciò ogni slogan che va in senso contrario mi fa semplicemente sorridere.

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Autarchia produttiva

In Italia e in altri paesi sta crescendo la moda di realizzare birre prodotte con materie prime nazionali. È un fenomeno collegato a quello del chilometro zero, ma  chiaramente molto meno radicale, e che in altri contesti rappresenta la regola piuttosto che l’eccezione. Nella birra non è così, almeno per quanto riguarda l’Italia, dato che il nostro paese non è storicamente un produttore di materie prime destinate alla creazione di birra. Questo aspetto riguarda soprattutto il luppolo, praticamente assente nelle sue varietà adatte alla produzione brassicola. A parte recenti progetti di coltivazione sul suolo nazionale, che però rappresentano casi più unici che rari.

Al di là della corretta attribuzione del concetto, ha senso produrre birra completamente italiana? Può essere un’idea comprensibilmente intrigante, ma spesso intorno a questi progetti si sviluppa un entusiasmo a mio parere esagerato. Nonostante gli sforzi che vengono compiuti quotidianamente in questo senso, non è difficile pensare che le materie prime di maggiore qualità provengano da chi le produce da secoli – in particolare quelle nazioni che storicamente sono esportatrici di malto d’orzo e luppolo. In altri casi l’idea di creare birra italiana nasce semplicemente dalla volontà di sfruttare sovvenzioni o finanziamenti di vario genere, snaturando spesso le consuetudini brassicole con risultati che sono la naturale conseguenza di singolari compromessi produttivi – ad esempio l’idea di realizzare una birra senza luppolo semplicemente per la mancanza di disponibilità di luppolo italiano.

Probabilmente non tutti concorderanno con le mie riflessioni, ma è indubbio che certe espressioni vengono spesso associate alla birra con troppa facilità. Vi vengono in mente altri concetti da approfondire e, eventualmente, rivalutare?

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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31 Commenti

  1. Complimenti per l’articolo e sono d’accordo quasi su tutto.
    Io avrei aggiunto la noiosa questione sul fatto che ora va di moda produrre birre artigianali e che piano piano stanno spuntanto beer shop o birrifici come funghi.
    A me come cosa non dispiace, perchè dopo ormai 3 anni che bevo esclusivamente birra artigianale è comodo trovare tante varianti di locali la sera.

    Ma non si sta esagerando? Stanno tutti diventando esperti birrai o esperti di birra? la moda non finirà per uccidere anche questo “mondo”?

    Complimenti per il vostro blog, scoperto ascoltando Radio Ra 2 e subito amato.
    Buon lavoro e un abbraccio

  2. Ad autarchia produttiva affiancherei o sostituirei il termine “indipendenza” riferito ad un micro.
    Un termine che dovrebbe significare l’assenza di quote societarie di proprietà di grossi gruppi del beverage (come mi sembra sia inteso nel mondo anglosassone), ma che viene artificiosamente riferito a quella “autarchia produttiva” o “autosufficienza” di materie prime o condizionamenti del mercato.

  3. Consumo possibile di acqua : 4 hl acqua/ hl di birra ( tendenza da arrivare a 3,5) .
    Non dimentichiamo che non ci sono lieviti autoctoni per.es.a proposito del KMZero

    A mio avviso queste cose sono di estrema importanza ma devono essere affrontate con approfondimenti corretti e ovviamente ci vogliono strutture e tecnici per sviscerarle. Diciamo che dopo una fase pioneristica potrebbero diventare argomenti di grande attualità

    • Sì giustissimo il discorso sul lievito, ingrediente che spesso viene dimenticato. A parte casi unici (es. esperimenti di Birra del Borgo), nessuno in Italia utilizza lieviti propri

  4. Vado un po’ controcorrente, io di mio non credo alle etichette, per cui Km 0 e altre cose le ritengo solo orpelli pubblicitari. Credo al palato, se è buona o semplicemente se mi piace va bene così . Altresì sono convinto anche io che il voler coltivare i luppoli qui non sia una buona idea a prescindere, ma se gli australiani e i californiani fanno un buon vino non vedo perché anche noi non possiamo coltivare luppoli buoni…

    • Il km Zero nasce nell’ambito di una rivalutazione del rapporto col mondo agricolo e contadino dei produttori. Rendere centrale il territorio significa non consegnare il controllo dell’agricoltura alle multinazionali, ma mantenere una diversificazione di prodotti e un legame vivo con la terra da cui tutti proveniamo. Può significare mantenere costi relativamente contenuti perchè non ci carichi il trasporto, coltivare le varietà più adatte al territorio che sono quelle che ci hanno tramandato le noste generazioni passate. Grazie alle conoscenze tecnologiche odierne oggi si possono utilizzare tecniche di conservazione un tempo impensabili. Per il nostro paese che è estremamente forte nella diversificazione alimentare , ma debole nella presenza di gruppi multinazionali anche nel settore alimentare questa è una priorità irrinunciabile.

      Slow Food con i suoi pregi e difetti è l’unica organizzazione mondiale di una certa importanza che ha la testa pensante in Italia, e questo la dice lunga sull’importanza del settore delle piccole produzioni, quelle a Km zero per noi.

      Poi se i luppoli neozelandesi sono buoni va bene, una cosa è una tendenza ed una filosofia, un’altra è l’osservanza rigida, c’è caso e caso e così va affrontato.

  5. mi spaventano un pò questi movimenti,nati perlopiù per creare nuove spinte economiche.
    a volte anzichè riscoprire tradizioni locali smembrano quelli di altri posti.
    capita di trovare carne di chianina allevata a 20km da casa illudendo che sia uguale a quella della val di chiana,hanno provato a produrre parmiggiano reggiano dall’altra parte del mondo con evidenti risultati scadenti,quindi non vedo cosa ci sia di male se volendo bere una buon ipa non debba ricercare i sentori dei migliori luppoli inglesi o anche americani.
    dall’altra parte visto la marea di microclimi presenti in italia e la nostra buona manualità con mi stupirei se riuscissimo a produrre ottime qualità di luppolo e perchè no anche lieviti.ma non per produrre ipa o american pale ale ,quelle hanno bisogno dei lori sapori
    lasciamo i sapori al loro posto,magari ne scopriamo di nuovi

  6. Ciao Andrea,
    potrebbe essere interessante considerara una produzione completamente italiana se viene garantita la “biologicità” degli ingredienti, direi in particolare dell’orzo.
    Cosa ne pensi?

    Fabio

    • Sarò limitato io Fabio, ma a me una birra interessa che sia buona. Poi se è prodotta con ingredienti del cortile di casa, se è sostenibile, biologica o 100% italiana mi interessa poco, al massimo può essere un valore aggiunto. Tutti questi “discorsi” intorno alla birra hanno senso e portano vantaggi, ma spesso vengono elevati a caratteristica principale. La mia birra è buona perché è biologica! Stronzate: la tua birra è buona se è buona, stop.

      • Non è detto che la birra è buona perchè è biologica. Non è quello che volevo intendere. E’ più come dici te un valore aggiunto.
        Neanche io sono un fanatico del biologico, mi pare una forzatura in alcuni contesti.

        Però potrebbe essere interessante dire: la mia birra è prodotta con prodotti completamente biologici. Magari non sarà mai il top e sarà limitata a pochi stili ma il birraio potrebbe garantire che li ha coltivati/allevati lui che accoppiata al concetto di kilometro zero, non ci vedo nulla di male.

        Se poi dice è buona perchè biologica: mente sapendo di mentire! e la cosa non l’approvo.

        • Come ho scritto nell’apertura dell’articolo, non critico questi concetti in quanto tali, trovandoli invece molto validi e degni di attenzione. Il problema è che spesso e volentieri se ne abusa parlando di birra e la cosa non mi piace affatto. O quantomeno si potrebbe essere onesti, spiegando chiaramente come si concretizzano nella produzione brassicola.

          Lo so che non facevi un discorso di qualità del biologico, è stata una mia deviazione perché anche in questo caso è un concetto che sento associare sempre più spesso (ed erroneamente) alla birra

  7. Semplicemente quello che può essere valido e utile (per non dire “remunerativo”) per prodotti come il vino (tanto sempre là si va a parare), nella birra difficilmente trova senso.

    Ci si può anche provare e trarne benefici, nessuno lo vieta, ma è resta una forzatura culturale.

  8. La buona birra artigianale la fa il bravo birraio che utilizza materie prime di qualità (a prescindere dalla loro provenienza). Le tendenze modaiole stupidamente cavalcate da alcuni microbirrifici sono baggianate buone solo per il marketing.

  9. Da mobile non riesco a far reply al commento in merito ai lieviti…, cmq so che Baladin per la Xiaoyu usa lieviti propri(non voglio esagerare, forse anche brevettati) che attenuano all’inverosimile!

  10. “Produrre birra non è un’attività ecologica, almeno non con le tecnologie a disposizione dei microbirrifici.”
    Sono d’accordo, pero’ un birrificio puo’ lavorare in maniera molto piu’ o molto meno ecologica rispetto ad un’altro.
    Facciamo la birra? Bene, la facciamo in questo modo che è piu’ ecologico rispetto a quest’altro.

    • Sono d’accordo, se un birrificio cerca soluzioni più ecologiche merita tutte le lodi del mondo. Però nel frattempo è giusto ricordare che l’impatto di certe soluzioni è minimo rispetto al consumo di risorse. Meglio poco che niente, sono d’accordo. L’importante è che non venga distorta la realtà tramite comunicazioni strumentali e mezze verità: dall’altra parte ci sono consumatori che nel migliore dei casi conoscono poco e niente di birra.

  11. In termini generali concordo con l’articolo di Andrea Turco. Se guardo anche a grandissimi della birra artigianale italiana che hanno fatto prodotti con ingredienti solo nazionali dico che i risultati, secondo me, sono stati modesti. Rilevo però alcune considerazioni che andrebbero approfondite. Innanzi tutto la distinzione tra km0 e filiera corta. Un conto è il km0 modaiolo e talvolta impraticabile come nella stragrande produzione di birra artigianale, mentre potrebbe essere praticata la via della filiera corta, cioè compro direttamente da un buon produttore, magari anche all’estero ma taglio gli intermediari. Il secondo aspetto riguarda il prodotto biologico o naturale. in questo caso dissento con Andrea Turco che dice “a me la birra interessa che sia buona”. Ovviamente anche a me interessa che sia buona ed è la prima cosa che cerco, ma sarebbe superficiale non porre l’attenzione su una materia prima biologica o naturale piuttosto che una materia prima prodotta con pesticidi e agenti inquinanti. Vorrei una birra buona dove magari l’orzo sia stato coltivato in maniera naturale, tanto meglio biologico.

  12. Condivido con Andrea T. l’eccessivo entusiasmo sul Km 0 (leggasi marketing) per differenziare il prodotto e uscire dalla massa montante dei nuovi (e vecchi) microbirrifici. Il malto che compriamo noi inquina meno se arriva da Bamberga che da Melfi. E’ vero che serve un mare d’acqua, ma molta è per i lavaggi e iraffreddamenti e si può ottimizzare. Lo stesso sull’energia, mettiamo pure i pannelli solari ma recuperiamo anche e soprattutto il calore.

  13. A mio avviso il Km0, in qualunque settore esso sia mensionato, può ostentare ad una qualità non vera, magari nel settore brassicolo non pò di più rispetto ad altri. Mi spiego meglio, con un esempio: un amico gelatio del mio paese, che punta sulla qualità delle materie prime per il suo gelato, ma qualità con la Q grande, i pistacchi e le nocciole, per esempio, non le acquista sotto casa (considera che sono della porvincia di Ancona), ma li prende i primi a Bronte e le seconde in Piemonte.
    Le materie prime dovone essere necessariamnte di qualità.

  14. Per questioni storiche e culturali, legata alle migrazioni (anche solo stagionali) dei popoli ed alla necessità di sfamare ed abbeverare gli eserciti si “inventarono” nei secoli derrate alimentari in grado di viaggiare, in modo da essere consumate a grandi distanze dal luogo di produzione. Su tutti spicca la pasta secca, leggera da trasportare, nutriente, sicura da un punto di vista batteriologico (insomma abbastanza sicura dopo la cottura), e facilmente cucinabile con una pentola, un fuoco ed un po’ di acqua (reperibile in loco). Anche per la birra vale in parte un discorso analogo (si vedano le origini delle IPA o delle Imperial Stout) e alcune zone della terra, per condizioni climatiche ed altri fattori legati alla microeconomia contadina, si sono trovate deputate alle coltivazioni di Orzo, Frumento e Luppolo. La maltatura dell’Orzo e l’essicazione del luppolo consentono proprio (tra le altre cose) la conservazione e la facile trasportabilità. Stiamo parlando di prodotti della terra che richiedono anni di esperienza e di studi per essere coltivati al meglio in luoghi diversi da quelli di origine. La filiera mondiale della birra è molto ottimizzata in questo senso con stabilimenti di lavorazione delle materie prime in prossimità del loro luogo di origine (che poi a Melfi possa arrivare oltre all’orzo della Basilicata anche, tiro a indovinare, dell’orzo francese è ovviamente una necessità per sopperire alla mancanza di sufficiente orzo locale). Partendo da questo concetto il miglior birrificio a Km zero d’Italia è Tarricone spa (Birra Morena) (ammesso che acquisti da Agrolimentare Sud). Mi stupisco che ancora non ne abbia fatto ragione di marketing.

  15. Biologico, km0, sostenibile, ecologico.. Tutte belle trovate che sanno più di marketing, di green washing, che di sostanza. Per me il cardine della questione non è tanto produrre birra con una filiera che minimizzi la CO2 emessa in ambiente, ma creare occupazione proprio qui, nelle nostre pianure. Nuove opportunità lavorative nella produzione del malto, del luppolo, nella maltazione, nella ricerca agroalimentare! Se poi non avremo delle Imperial Stout o delle Ipa, chi se ne frega. Avremo nuovi aromi, nuovi amari e indi nuovi stili! In Francia hanno lo Champagne, noi lo SPUMANTE! Ma non credo che gli Italiani per questo si sentano in difetto.

  16. Un atteggiamento “ecologico” potrebbe essere bere sempre o quasi sempre birre di qualità ed evitare le birracce monosapore, visto che produrre birre esige un impiego così vasto di acqua. Oh, io studio marketing…teoricamente si tratta di creare valore per il cliente per ottenere valore dallo stesso…meglio produrre un buon prodotto che andar dietro ai trend del momento!

  17. per quanto riguarda il discorso km0 penso che si potrebbe prendere in considerazione non tanto la distanza di arrivo delle materie prime (orzo e luppolo) quanto, e credo più importante, il km0 delle vendite (bottiglie e fusti). Il km0 (alla vendita!) potrebbe essere una forma da prendere in considerazione al fine di evitare di spostare bancali di casse di bottiglie e fusti su e giù per la penisola o addirittura per l’Europa.

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