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Pastry Stout, chi sono costoro?

Da un lustro a questa parte tutti avete potuto notare la fioritura di un “mercato” delle Imperial Stout e Porter con uno o più ingredienti aggiuntivi immessi durante o a fine fermentazione, spesso e volentieri in quantità esorbitanti. Tale tendenza è cavalcata da diversi birrifici, di solito statunitensi ma anche europei, a fronte comunque di un interesse sempre crescente da parte di appassionati e geek, in particolare quelli più attenti alle tendenze birrarie d’oltreoceano. Tuttavia, molti altri appassionati e la critica in generale non vedono di buon occhio tali birre, considerate “finte” o “roba per malati di merendine” e de plano anche chi le ricerca e beve con costanza. Ma cominciamo a capire cosa si intende o si dovrebbe intendere per Pastry Stout, in parole povere cerchiamo di dare una chiave di lettura organica e coerente.

In primo luogo le Pastry Stout sarebbero birre a base Imperial Stout, ma anche Imperial Porter, che presentano ingredienti aggiuntivi che richiamano prodotti raffinati, quali snack dolci, torte, gelati o anche merendine Tali ingredienti possono essere assai diversi tra loro: dallo sciroppo d’acero ai marshmallow, dalla nocciola alle noci di pecan, nel tentativo di riportare l’appassionato o il geek a veri e propri prodotti di consumo comune, come ad esempio lo Snickers, il Rocky Road o il cookie. È da sottolineare come la “critica” stigmatizzi tali birre, adducendo la presenza sentori nasali e/o palatali fake, cioè di aromi e ingredienti non naturali, che porterebbero tali prodotti a non poter essere considerati “birre”. È indubbio che talune produzioni si contraddistinguono per sentori organolettici che ingenerano almeno dei “sospetti”, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Come non si può giudicare la competenza di un appassionato dal fatto che beva o meno le “pastry”, errore molto comune. Ma vi è di più.

A onor del vero il termine Pastry, che ricorda qualcosa di eccessivamente dolce, stucchevole e impiastricciato, personalmente non piace, lo ritengo improprio e riduttivo. Preferisco Imperial Stout (o Porter) con adjunct, per diversi motivi. In primis perché non tutte le Imperial Stout con adjunct hanno sentori organolettici fake (grazie a Dio) o spettri nasali e palatali che ricordano una merendina o una torta. Pensate a una Imperial Stout in botti di Rye Whiskey con adjunct di cannella, cioccolato fondente e peperoncino. Niente di organoletticamente più lontano da un dolcetto o una merendina. In secundis, le Stout e le Porter con adjunct sono apparse nello scenario brassicolo da diverso tempo, e sul punto non possiamo esimerci dall’annoverare la Double Chocolate Stout di Young’s, la Speedway Stout di Alesmith o la Creme Brulee di Southern Tier. In merito, considerando che Stout e Porter sviluppano sentori di cioccolato e caffè grazie ai malti utilizzati, appare una conseguenza naturale che qualcuno abbia pensato di utilizzare questi ingredienti come adjunct nella propria ricetta di Imperial Stout o Porter. Da qui, passo dopo passo, ecco lo sdoganamento di moltissimi altri ingredienti sul piano delle adjunct.

E ancora, al netto di sentori non propriamente naturali di cui ovviamente stigmatizzo vivamente l’utilizzo, ritengo le Adjunct Stout birre molto difficili da realizzare, soprattutto sul piano dell’equilibrio. Invero, a mio avviso le adjuncts devono valorizzare la birra base e mai coprirla: in altre parole la base deve sempre essere distinguibile organoletticamente, non deve esserci mai una adjunct troppo preponderante rispetto all’altra e anzi devono essere tutte percettibili distintamente, senza alcun deleterio effetto “mischione”. Concetti ancora più importanti e imprescindibili nel caso in cui la birra in questione sia invecchiata in botte, che sia di Bourbon, Rum, Cognac, ecc. Basti pensare che ad esempio due botti di Breckenridge provenienti da due distillerie anche logisticamente vicine, a parità di permanenza in legno del detto Whiskey, possono offrire un profilo organolettico nelle note di cioccolato fondente e cocco molto diverse fra loro. Tutti elementi che compongono un quadro dove si stagliano prodotti complessi, frutto di un lavoro di “cesello”, ragionato, preciso e spesso punto di arrivo di una lunga ricerca per ottenere un equilibrio molto sottile.

Orbene, sulla scorta di quanto esposto, abbiamo deciso con Andrea Turco di assaggiare un’Imperial Stout con adjunct, optando per quella di un birrificio noto per le sue “Pastry”, prodotta con ingredienti aggiuntivi abbastanza spinti e dolci da rischiare fortemente l’effetto dolcetto o merendina. La scelta è ricaduta sulla Maple Walnut Popinski di Angry Chair, una Russian Imperial Stout con aggiunta di noci tostate e sciroppo d’acero. Un ringraziamento va al Bere di Roma per la gentile ospitalità.

La birra si presenta piuttosto densa e con una schiuma appena accennata, che scompare dopo una ventina di secondi. Al naso si stagliano note di cioccolato, noci e sciroppo d’acero, la carbonazione è appropriata e aiuta la bevuta. L’ingresso in bocca rileva noci tostate, vaniglia e un tocco di sciroppo d’acero, con la parte maltata che regala note fondenti di cioccolato. Il corpo è medio tendente all’ampio, molto morbido e setoso. Il finale regala una sottile nota amara e secca che chiude la bevuta, con la dolcezza dello sciroppo d’acero che fa ancora una volta capolino. È una birra di grande equilibrio, con la base Russian Imperial Stout valorizzata al meglio, dove le adjuncts sono presenti e distinguibili, ma mai coprenti e o troppo dominanti. Non risulta troppo dolce e per nulla stucchevole, aspetto che dimostra come le Adjunct Stout debbano essere calibrate al millimetro per risultare soddisfacenti. Senza timore di essere banale o ridondante, ad esempio la scelta di una base Imperial Milk Stout avrebbe probabilmente reso la Maple Walnut Popinski totalmente sbilanciata sul lato della dolcezza, quasi imbevibile.

L'autore: Pierluigi Nacci

Appassionato di birra artigianale sin dal 2004, ha frequentato numerosi corsi di degustazione e nel corso degli anni ha sviluppato una predilezione per i viaggi birrari all'estero, comprensivi di visite a taproom e pub, e per i festival internazionali. Senza assolutamente tralasciare la scena italiana.

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4 Commenti

  1. Ad occhio e croce direi “un’americanata”. E probabilmente non sbaglio.
    Non mi reputo troppo tradizionale, ma questa smania di “inventare” in continuazione cose nuove e assurde, solo per la loro fissa col cambiare tutto sempre e velocemente, non la capirò mai. Anche perchè nel 90% dei casi sono solo mode che poi vengono dimenticate, e non solo nelle birre.
    I prodotti eccellenti, che valgono e che durano nel tempo, sono quasi tutti europei, dalle loro parti poca roba di quel tipo. Tornando alle birre, gli stili classici fatti a regola d’arte saranno sempre apprezzati, queste cose come sono arrivate spariranno, ci scommetto.

  2. Prodotti eccellenti ce ne sono anche negli USA. Anzi. il livello medio è davvero alto. E la differenza la capisci quando sei là, perchè spesso quello che arriva qui è un pallido ricordo, sopratutto sulle birre da bere entro poche settimane di vita. Di “americanate” ne abbiamo anche in Europa, se vogliamo usare questo termine che personalmente non amo.

  3. Perfettamente d’accordo con l’autore. Su tutto.

    Bevetevi una cocobanger di pohjiala, o una dark blood di pohaste. Una Napoleon cake di brewsky, dal retrogusto acidulo di fragola che non invade e sale dopo che si è già chiusa la boccata.

    Sto scrivendo mentre sorseggio una fenomenale bollner, double chocolate milk stout di Adler.

    Per capirlo, bisogna appunto amare le stout, il loro essere caffettose e cioccolatose già di loro.

    Ma la stout e la Porter sono birre che pochi capiscono già in partenza. Specialmente in Italia dove nasciamo con pilsner e lager di bassa fattura e la stout che conosciamo è la Guinnes.

    Poi, ci sono quelle che sanno di cioccolata di macchinetta e di cioccolata di macchinetta versata nella birra… Ma quelle sono semplicemente errori e sbagliate.

    Le Porter e le stout sono per pochi, come i Barley wine. Anche sui Barley, alcuni sanno di passito e sono troppo dolci. Esagerati, sbagliati.

    Comunque sono birre e devono rimanere birre. Chi le fa bene, chi no.

    Gli slavi, ad esempio, le fanno da dio. Sarà perché hanno una lunga tradizione? Probabile. I birrifici meno provinciali d’Italia, però… Sanno difendersi bene.

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