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Come l’homebrewing può cambiarti la vita

Da quando ho iniziato a fare birra in casa, circa 7 anni fa, ho sempre seguito con estremo interesse il blog di The Mad Fermentationist. Michael Tonsmeire, homebrewer americano, creò questo blog per raccontare le sue prime esperienze con le fermentazioni casalinghe. Oggi Tonsmeire è diventato fondatore e birraio del birrificio Sapwood Cellar (sito web). Per mancanza di tempo non aggiorna più il blog con la costanza di una volta, ma negli ultimi giorni ha pubblicato una interessante riflessione sullo stato dell’homebrewing in America. Nell’introduzione del post, prima di addentrarsi nell’analisi di dati e trend, Tonsmeire racconta come l’homebrewing abbia cambiato la sua vita – in meglio – stimolando curiosità e interessi che non ricordava o non sapeva nemmeno di avere. Incuriosito da questa riflessione, mi sono chiesto anche io cosa l’homebrewing avesse fatto per me in questi sette anni. Non poco, direi.

Ha riacceso il mio interesse per la scrittura

Da piccolo ho sempre letto tantissimo. Mi piacevano le storie di Asimov, poi sono diventato adolescente e sono passato, ahimè, a leggere Baricco. Poi anche molto altro, fortunatamente. In adolescenza scrivevo molto e ho continuato fino ai tempi dell’università. Storie, diari, libri che sognavo di pubblicare ma ovviamente non ho mai nemmeno finito (tranne uno, che ho finito ma non era pubblicabile). Poi ho smesso di scrivere, quasi completamente. Diversi anni dopo, quando ho iniziato a fare birra in casa, ho sentito il bisogno di raccontare quello che facevo. È nato così Brewing Bad, un piccolo blog che piano piano è cresciuto. Prima scrivevo un articolo ogni tanto, poi i contributi sono diventati  settimanali e hanno iniziato a richiedere maggiore impegno. Da Brewing Bad la scrittura si è estesa a Cronache di Birra, con questa rubrica, ma anche ad altre riviste di settore. Ho ripreso a scrivere con costanza, dedicando a questa attività molto del mio tempo libero. Sto lavorando a un libro, sempre sulla birra, il primo che forse finirò (e pubblicherò) dai tempi dell’adolescenza. Insomma, se sono tornato a scrivere è grazie all’homebrewing.

È aumentato il mio interesse verso la cucina

Cucinare mi è sempre piaciuto. Ricordo che sin da piccolo preparavo il pranzo per me e mio fratello più piccolo. Lo educai all’utilizzo smodato del peperoncino nell’arrabbiata, ma oltre a qualche primo non sapevo fare granché. Con gli anni imparai qualche altra ricetta, usando ingredienti a caso che ogni tanto davano vita a qualcosa di interessante, molte altre no. È comunque bastato per farmi sopravvivere a diversi anni di vita da single senza abusare di rosticcerie cinesi o ristoranti self-service. Negli ultimi anni ho sempre cucinato, cercando di migliorare, ma senza studiare nulla. Poi ho iniziato a fare birra, e ho scoperto che per fare buona birra e buone ricette non basta avere il “guizzo” o sentirsi artisti, bisogna studiare.

Per usare bene le varie tipologie di malto in una ricetta non basta farsi ispirare dal nome (Biscuit, Honey, Crystal e via dicendo) o dal colore, ma è bene conoscerne il processo produttivo per capire il range aromatico in cui ci si muove. Ho scoperto che non esiste un solo tipo di grano, o di orzo, come non esiste un solo produttore. Ho imparato a conoscere la reazione di Maillard, che colora e arricchisce con aromi incredibili il chicco di malto tostato ma anche la bistecca che cuoce sul fuoco. Ho scoperto che esistono temperature precise a cui certe reazioni avvengono, nella produzione di birra così come in cucina. Che aggiungere il basilico a fine cottura è un po’ come fare dry hopping a fine fermentazione. E allora ho iniziato a curiosare, studiare, leggere. Non diventerò un cuoco esperto perché non ho tempo materiale da dedicare anche allo studio della cucina, ma almeno ora so come mai la pasta si ammorbidisce quando bolle, cos’è l’amido di mais e perché a volte si aggiunge nelle preparazioni per far addensare il “sughetto”. Ho scoperto anche che il lievito per dolci non è lievito manco per niente, ma un mix di bicarbonato e acido in polvere che reagisce con l’impasto liberando anidride carbonica. Mi pareva impossibile che qualcosa potesse lievitare dentro un forno a 180°C. Magari ero io a essere particolarmente ignorante in materia, ma la cosa mi ha turbato non poco.

Ho appreso alcuni principi essenziali di pulizia e igiene alimentare

Prima di iniziare a fare birra non avevo ben chiaro cosa fossero batteri e lieviti. Avevo qualche nozione di massima sui virus, tipo che spesso sono la causa di febbre e raffreddore, ma il mondo microscopico in cui vivono e prosperano questi esseri viventi mi era abbastanza ignoto. Ero fermante convinto che il freddo non facesse venire la febbre, ma non mi era chiarissimo il perché. Pensavo che mettere il cibo nel congelatore fosse sufficiente a renderlo “sterile”, e non capivo che problema ci fosse a scongelarlo e ricongelarlo di nuovo. Poi ho iniziato a gestire lieviti e batteri per le mie fermentazioni, e mi si è aperto un mondo.

Quando ho comprato i primi batteri lattici che andavano conservati in congelatore se non utilizzati per la fermentazione, ho iniziato a dubitare delle mie (scarse) conoscenze. Perché per fare birra devi necessariamente imparare che un batterio è molto diverso da un lievito, e che all’interno delle due categorie esistono tantissime specie che si comportano in modo differente. Scopri che il freddo rallenta o ferma l’attività microbica ma non uccide tutti i microbi. Scopri che quando congeli un cibo con batteri o lieviti (come quella volta che per sbaglio hai congelato uno starter) quei batteri rimangono lì, e quando lasci scongelare iniziano a moltiplicarsi a velocità smodata. Ecco perché poi è bene non ricongelare il cibo scongelato, a meno di non cuocerlo prima (per ammazzare, stavolta sul serio, quei dannati batteri). Oggi mi chiedo come ho fatto a vivere senza conoscere, almeno superficialmente, i meccanismi che regolano l’azione di questi piccoli microbi così importanti per la nostra vita ma anche così pericolosi in certi casi. Un mondo vasto che continua a stimolare continuamente la mia curiosità.

Ho superato la mia idiosincrasia nei confronti della chimica

Ricordo benissimo l’unico esame di chimica inorganica che ho dovuto sostenere durante il mio percorso di studi universitari. Frequentavo la facoltà di Ingegneria Elettronica alla Sapienza di Roma e odiavo il librone blu pieno di formule che avrei dovuto studiare per l’unico esame di chimica previsto dalla mia specializzazione. La chimica è pesante, difficile e complessa. Bisogna passare molto tempo sui libri prima di riuscire a dare un senso pratico alle numerose formule che popolano le pagine dei libri di testo. Non riuscivo a memorizzare i nomi degli elementi, odiavo studiare a memoria ma soprattutto non riuscivo a scorgere la minima connessione tra quello che studiavo e la realtà in cui vivevo. Superai quell’esame diversi anni dopo, con un sforzo mnemonico notevole, senza tuttavia aver capito nulla di quello che avevo studiato. Ma mi ero liberato del mattone blu (ricordo che lo tirai fuori dallo zaino e ci saltai sopra diverse volte) e tanto bastava. Mi laureai felice (diversi anni dopo) continuando a ignorare completamente i principi base della chimica.

Passarono anni, decenni, quando improvvisamente mi trovai a discutere di solfati, cloruri, bicarbonati e acidità dell’acqua in un gruppo Facebook per homebrewer. Sebbene avessi letto qualcosa qui è là, capii subito che non riuscivo molto bene a difendere le mie tesi. Arrivava sempre il momento in cui qualcuno mi bombardava di nozioni chimiche a cui non riuscivo a dare nessun senso. Esattamente come ai tempi dell’università. Fu allora che mi voltai verso la libreria, scaffale in fondo, dove conservavo ancora quel libro come un piccolo trofeo. Lo aprii e iniziai a leggere. E a studiare. E da lì all’acquisto di un nuovo libro di chimica organica il passo fu breve. Ancora oggi capisco molto poco di chimica, ma sto leggendo e studiando come fossi nuovamente all’università. E tutto grazie alle acque storiche di Burton.

Ho imparato qualche principio nutrizionale

Prima di fare birra sapevo solo vagamente cosa erano i lipidi, i grassi saturi e insaturi, gli zuccheri. Ogni tanto leggevo le schede nutrizionali e gli ingredienti sulle confezioni degli alimenti, ma nella maggior parte dei casi era una pura lettura informativa. Al limite evitavo quegli alimenti processati che contenevano i famosi grassi idrogenati, ma nulla di più. Poi ho iniziato a studiare gli ingredienti della birra: ho scoperto che i cereali non contengono solo amidi ma anche grassi; quelli chiamati “grassi buoni”, che si trovano principalmente all’interno del chicco. Ho capito come la raffinazione dei cereali porta via nutrienti e fibre dal chicco, impoverendoli praticamente di tutto ciò che fa bene al nostro corpo. Ho scoperto perché la pizza lievitata lentamente si digerisce meglio e soprattutto perché alcune pizze fatte male gonfiano lo stomaco (spoiler: no, non è colpa del lievito della pizza che fermenta nello stomaco). Ho capito meglio cos’è il colesterolo, a cosa serve, studiando il metabolismo delle cellule di lievito. Non sono diventato improvvisamente un nutrizionista, ma la produzione di birra ha stimolato la mia curiosità verso i principi che guidano il nostro metabolismo. Può sembrare poco, ma capire quello che si sta mangiando aiuta a vivere meglio. Purtroppo sono diventato un ospite scomodo alle pizzate con gli amici: quando qualcuno, a fine cena, se ne esce con la solita frase “questa pizza ha troppo lievito mi si è gonfiato lo stomaco” non resisto e parto con i miei sermoni. Alcuni hanno smesso – giustamente – di invitarmi.

È cresciuta la mia consapevolezza di gusto e olfatto

Può sembrare banale, ma prima di iniziare a fare birra non avevo molta consapevolezza di quello che percepivo con naso e bocca quando bevevo o mangiavo. A dirla tutta non avevo nemmeno ben chiara la differenza tra gusto, sapore, aroma, profumo e sensazioni palatali. Per quanto sia sempre stato curioso verso cibo e bevande, non ero avvezzo a concentrarmi sull’effetto che gli ingredienti avevano avuto su una certa preparazione, o alle effettive sensazioni che viaggiavano nella mia testa quando assaggiavo un piatto nuovo. Seguire il processo di fermentazione del mosto, assaggiando piccoli campioni man mano che questo si trasforma in birra, ha messo a dura prova il mio apparato sensoriale. Una commistione di aromi, gusti e sapori che non sempre era facile definire e identificare.

Chi vive lontano dal mondo della natura, come noi poveri abitanti di città, tende a perdere contatto con gli odori che offre la natura. Per raccontare le mie birre ho dovuto imparare a descriverle, così come per migliorare nella produzione sono stato costretto a identificare i difetti, dando loro un nome per individuarne la causa. Uno sforzo che generalmente non si compie quando si mangia, perché lo si fa per puro piacere. Ma quando vuoi migliorare ciò che produci è necessario fare un passo oltre e analizzare quello che c’è nel bicchiere. Questo mi ha portato nuovamente a studiare, entrando a contatto con il mondo della degustazione. Ho scoperto come funzionano i sensi, a cosa serve l’amigdala, come lavorano i recettori del gusto. Come si combinano le sensazioni del palato con il retrolfatto e cosa scatena un aroma all’interno del cervello. Ho imparato a utilizzare un vocabolario specifico per descrivere gli aromi, sforzandomi a dare un nome agli odori. Per molti queste “infrastrutture sensoriali” possono sembrare una inutile complicazione di sensazioni naturali, ma vi assicuro che essere consapevoli di quello che si annusa e che si mangia apre la mente verso mondi inesplorati. Tipo chiedersi che odore ha una puzzola.

Ho stretto nuove amicizie

L’ho lasciato per ultimo ma è forse l’aspetto più importante. Fare birra in casa ha allargato notevolmente il mio giro di amicizie e di conoscenze. Non che prima non avessi amici, sia chiaro, ma ora che la rete si è estesa ne sto apprezzando enormemente il valore. Quando capito in una città per un evento o una lezione, c’è sempre qualche homebrewer da incontrare e con cui scambiare quattro chiacchiere. Ma il valore più grande è che l’homebrewing, come molti hobby, è trasversale alla politica, agli ambiti lavorativi, agli interessi personali. Si incontra gente di tutti i tipi con cui parlare di birra ma anche di altro. A meno di casi eccezionali in cui le differenze di vedute sono troppo divergenti da non poter essere accantonate sotto al bancone (capita, ma raramente) negli altri casi si ha la possibilità di parlare con persone completamente diverse da noi. E questo aiuta ad aprire la mente, togliendoti a forza dalla solita cerchia di amici che la pensano esattamente come te. L’homebrewing unisce, la birra anche, messi insieme sono la combinazione perfetta.

L'autore: Francesco Antonelli

Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. Da febbraio 2014 è Degustatore Professionista dell'Associazione Degustatori di Birra.

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Un commento

  1. Non hai scritto: “ho imparato a brassare”, questo ti fa onore.

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