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Il riscatto della lattina

Per molti prodotti alimentari la storia del contenitore è tanto affascinante quanto quella del contenuto, perché il packaging ne influenza disponibilità, modalità di consumo e popolarità. A partire dalla forma, passando per il tipo di materiale e arrivando al design, anche il packaging della birra ha molte storie da raccontare. Una in particolare mi ha colpito e incuriosito, quella della lattina: dapprima accolta come rivoluzionaria, poi etichettata come qualitativamente inferiore e infine riabilitata come simbolo della nuova wave della birra artigianale. Quella della lattina è un’epopea ancora in evoluzione e che continua a far parlare di sé.

Anticipando la fine del Proibizionismo, la American Can Company fin dal 1931 dedicò risorse e tempo a studiare una lattina che fosse adatta alla birra e che quindi resistesse alla sua pressione (data dalla elevata presenza di CO2) e avesse un rivestimento interno in grado di proteggerne il profilo aromatico e gustativo. La soluzione venne finalmente trovata nel 1934, ma molti grandi birrifici come Pabst e Anheuser-Busch non vollero esserne i pionieri. Il 24 gennaio del 1935 fu il birrificio Krueger di Richmond – Virginia, a distribuire la prima lattina della loro Cream Ale. Il successo fu straordinario e quell’anno si chiuse con ben 37 birrifici americani produttori di lattine per un totale di 200 milioni di pezzi venduti. L’introduzione in Europa di questa rivoluzione avvenne l’anno successivo, nel marzo del 1936, grazie al birrificio gallese Felinfoel. Da lì molte furono le innovazioni e i miglioramenti che vennero apportati al rivoluzionario contenitore, in forma, modalità di apertura e materiale. Quella sicuramente più importante fu l’introduzione nel 1958 dell’alluminio che sostituì la latta nella produzione di tutte le lattine alimentari.

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Proprio in quegli anni il cibo in scatola divenne molto popolare e cambiò lo stile di vita di molte famiglie, dalla conservazione dei prodotti alla loro preparazione fino a diventare simbolo del consumismo nelle iconiche rappresentazioni della Pop Art. Anche la birra in lattina conobbe grande successo in quel periodo e da allora ha sempre suscitato sentimenti e giudizi contrastanti.

Spesso menzionata per aspetti negativi legati alla qualità del prodotto e in particolare all’alterazione del profilo aromatico della birra, la lattina presenta alcuni indubbi vantaggi che hanno certamente contribuito a farla resistere ed evolvere: facilità di trasporto e stoccaggio, materiale 100% riciclabile e protezione dalla luce.

Nonostante ci siano ancora molti pregiudizi da rimuovere e sebbene vadano fatte le dovute distinzioni in base a stili e modalità di produzione, oggi dal punto di vista tecnico si è pressoché concordi sulla bontà della lattina per un prodotto come la birra, anche quella artigianale. Grazie agli avanzamenti tecnologici che hanno portato a miglioramenti dei rivestimenti interni e all’abbassamento dei costi di confezionamento delle lattine, anche produttori più piccoli oggi possono offrire le proprie birre in lattina.

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Nel 2002, il birrificio craft americano Oskar Blues fu il primo a compiere il grande passo e a prendersi il rischio di una scelta tanto coraggiosa quanto visionaria: acquistare una canning line e proporre la Dale’s Pale Ale in lattina. Da allora la strada è stata lunga e ha visto diversi attori battersi per affermare la dignità, se non addirittura la superiorità, della lattina come uno dei contenitori ideali per la birra, almeno per certi stili. In America molte delle remore e ostilità nei confronti di questo tipo di packaging paiono essersi attenuate; in Europa invece la situazione sta cambiando solo in questi ultimi anni e mesi, con il Regno Unito a far da apri pista. Brewdog, Camden Town e Beavertown sono solo alcuni degli esempi di successo in questo campo. Successo cui ha contribuito anche l’altro grande vantaggio che le lattine offrono: lo spazio a disposizione per comunicare e raccontare la storia del prodotto e del birrificio.

Facendo un passo indietro, la birra artigianale sta vivendo un momento storico di eccezionale crescita e interesse. In un’era come quella odierna in cui la cultura foodie è diventata popolare e ha democratizzato – almeno in apparenza – il buon cibo rendendolo accessibile e alla portata di tutti, anche la birra è stata travolta da una maggiore attenzione. I consumatori vogliono saperne di più sul prodotto, vogliono capirne le differenze e riconoscerne le caratteristiche, voglio avere informazioni sulla sua produzione e associare un volto a un birrificio. Vogliono una storia, che sia autentica, credibile e raccontata in maniera semplice e intuitiva. I birrifici hanno quindi l’opportunità, ma anche il dovere secondo me, di raccontare le proprie storie e quelle dei propri prodotti, utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione, in primis il packaging. Ed è qui che la lattina fa la differenza.

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Uno strumento, anzi un media, come la superficie della lattina è perfetto per comunicare il ricco e affascinante mondo che si cela dietro un prodotto come la birra artigianale. Un packaging interamente brandizzato che il consumatore ha tra le mani e attraverso cui può – se lo vuole – soddisfare la sua curiosità.

I tre birrifici inglesi citati poco sopra sono sicuramente un esempio di come la lattina possa essere sfruttata in maniera vincente per comunicare storie che vanno oltre il prodotto stesso: la ribellione di Brewdog contro l’appiattimento del gusto imposto per decenni dall’industria birraria; la fermezza e il coraggio di Camden Town nel riaffermare la dignità delle lager; il non conformismo di Beavertown nel proporre linguaggi visivi, di prodotto e di packaging distanti da quelli dominanti.

In Italia gli esempi sono ancora pochissimi, i primi che ho personalmente visto sembrano aver perso (o semplicemente rimandato) una grande opportunità: un approccio lontano dal riconoscere nella comunicazione un elemento fondamentale di dialogo con il consumatore; operazioni che sembrano dettate da scelte commerciali o produttive più che dalla convinzione che la lattina sia uno strumento forte per comunicare la propria idea, storia e valori; un design che vacilla perché forse manca di un concept forte a monte. Il design, infatti, è sempre al servizio di un’idea più alta, di un concetto, di un contenuto e il suo compito consiste nel tradurlo in elementi visivi.

Inside

Detto con parole altrui: “Content precedes design. Design in the absence of content is not design, it’s decoration.” (Jeffrey Zeldman)

L'autore: Anna Manago'

Un passato in Carlsberg, ora consulente marketing a Londra dove ha anche fondato ByVolume, design agency specializzata in food & beverage. Da anni giudice in varie competizioni fra cui Birra dell’Anno, European Beer Star, World Beer Cup.

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4 Commenti

  1. Sono Grande sostenitore della birra in lattina ,
    e attendo con ansia qualche craft nostrano che confezioni in questo modo ( oltre a Baladin ).
    A livello di processi di riempimento non è possibile avere gli stessi standard tecnologici della bottiglia ,
    ma ci si può comunque avvicinare

  2. Da aggiungere ai vantaggi della lattina:
    – più economica
    – transporto più economico
    – più sicura, si rompe meno facilmente ed è accettata in eventi affollati

  3. Ti sei salvata in calcio d’angolo con la citazione finale…
    Francamente, stavi esagerando un po’ troppo 😉

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