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Viaggio nel Midwest: nel cuore della birra craft statunitense

The best beers in the world today are being made in the US.

È questa la sentenza con cui Smithsonian.com, sito del magazine da oltre due milioni di copie di tiratura negli Stati Uniti, ha cercato di spiegare l’avvento della nuova era della birra artigianale. Non avendo né le competenze né i mezzi per inserirmi in una diatriba del genere, ho deciso di utilizzare questa come frase introduttiva alla mia esperienza in quella che senza dubbio si può definire come una delle patrie mondiali della birra artigianale. Numeri alla mano, infatti, gli Stati Uniti hanno lanciato un trend che si sta espandendo globalmente, potendo contare nel 2013 (dati forniti dalla Brewers Association) su più di 2.500 birrifici “artigianali” che danno lavoro a oltre 100.000 persone. Dati del genere inorgogliscono l’associazione dei produttori e stimolano qualsiasi amante, esperto o meno, del mondo della craft-made beer. Così, dovendomi recare ad Indianapolis per le Final Four di college basket americano con la seguente settimana da trascorrere a Chicago, non ho potuto fare a meno di documentarmi sul tour birrario da intraprendere. Caricato a pallettoni da amici amanti del mondo del luppolo e armato del mio modesto bagaglio di esperienza acquisito grazie a un quinquennio di bevute nel panorama romano, mi sono gettato a capofitto nel cuore degli Stati Uniti per un’esperienza birraria che definirei unica.

Midwest: Real USA, real craft

Unica come il Midwest, zona geografica in cui possiamo collocare l’Indiana e l’illinois , gli stati che mi hanno ospitato in queste due settimane. È da subito evidente come il sentimento di autenticità degli abitanti della fascia centrale degli USA, pervada ogni settore sociale ed economico di Indianapolis e Chicago. Los Angeles, New York e Miami sono percepite come mondi estranei ai veri Stati Uniti, quelli dei truck e dei diner’s situati sul ciglio delle strade periferiche. Benché sia un leitmotiv nazionale, dovuto al duello contro i birrifici industriali, questo sentimento di rappresentare la più pura essenza degli Stati Uniti si riverbera sul modo di produrre la birra artigianale, come dimostrano le rivendicazioni d’orgoglio dei piccoli produttori (“drink local” la più utilizzata) e la predilezione per stili (di birra e cucina) che prevedono materie prime locali.

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A Indianapolis nella fan zone per i tifosi della NCAA servono birra craft alla spina invece delle solite lager industriali

To drink local or light?

A dir la verità, il fatto che si tratti di piccoli produttori è da rapportare alle dimensioni mastodontiche degli Stati UnitiStando alla Brewers Association il limite massimo di produzione per essere considerati ancora artigianali è di 6 milioni di barili annui (da più di 100 litri l’uno) annui: potete quindi immaginare il volume di produzione di questi “piccoli produttori”. Va però detto che rispetto ai colossi della birra industriale si tratta comunque di una cifra piuttosto modesta.

Molto interessante è il rapporto che hanno birrifici artigianali e rivenditori di birra industriale. La cosa che ho notato, e che mi ha molto stupito nel corso del mio viaggio, è come i due mercati vengano considerati apparentati, ma non per questo in aspra competizione. Il punto è che i fruitori dell’uno o dell’altro genere di birra sono talmente abbondanti che la scena più normale è quella di vedere, accanto a un brewpub craft stracolmo di clienti, un pub mainstream che vende Coors Light e Budweieser, entrambi pieni, entrambi a lavorare instancabilmente per tutto il lungo orario di apertura. Sembrano essere due mondi paralleli, in cui un tipo di “venditore” è tutto sommato tollerante nei confronti dell’altro, poiché sa di proporre prodotti totalmente diversi e fruibili da fasce differenziate di consumatori. Le stesse strategie commerciali sono diverse: da una parte si punta sulla quantità di birrifici e quindi di scelta sugli stili di birra e sulle diverse qualità che propongono (qui uno schema in pdf), dall’altra si spinge sulla sicurezza offerta al cliente di avere sempre lo stesso prodotto, mai diverso, sapendo di soddisfare la richiesta in quanto sempre identica.

Un fermentatore di Goose Island. Non fatevi ingannare dalle sue dimensioni: l'azienda è tutt'altro che piccina!
Un fermentatore di Goose Island. Non fatevi ingannare dalle sue dimensioni: l’azienda è tutt’altro che piccina!

Sun King e Goose Island, le “industrie” del craft

La distinzione, però, potrebbe sembrare più netta di quanto in realtà non sia. Sia a Indianapolis che a Chicago ci sono birrifici locali che si distanziano molto da una concezione (anche se particolare come quella americana) di produzione artigianale, almeno per come possiamo concepirla in Italia. Sun King nell’Indiana e Goose Island nell’Illinois rappresentano due ottimi esempi di questo fenomeno: sono birrifici che, pur producendo alla maniera artigianale, per volume di smercio o per l’acquisizione da parte di compagnie industriali (vedi Goose Island) non possono definirsi prettamente tradizionali, secondo l’accezione americana del termine.

Il modo di concepire il mercato da parte di questi due mastodonti presenta allo stesso tempo vantaggi e problematiche. Il vantaggio più grande risiede nella capacità di proporre a un pubblico vastissimo un prodotto senza dubbio di maggiore qualità rispetto all’annacquatissima Bud Light, ma – e mi riferisco soprattutto al birrificio Sun King – non nella sua forma più autentica. Il primo consiglio fattomi dai ragazzi che mi hanno ospitato nell’Indiana è stato di guardarmi bene dall’andare al pub della Sun King, poiché nel complesso modesto. Dopo aver bevuto in giro per la città la loro Cream Ale, ho capito anche il motivo: è una birra francamente anonima. Ma i vantaggi dello smercio a livello industriale di un marchio del genere è dato dalla possibilità di trovarlo in quelle situazioni solitamente dominate dai marchi internazionali. E così durante gli eventi sportivi, negli aeroporti o nelle zone dedicate ai fan per le Final Four NCAA, Sun King propone una serie di prodotti che, pur risultando tutt’altro che eccelsi, sono pur sempre competitivi se rapportati alle classiche “birre da stadio”, di cui in Italia abbiamo pessimi e allo stesso tempo calzanti esempi.

Per quanto riguarda Goose Island, il discorso è leggermente differente. Benché dal 2011 non possa più considerarsi un birrificio artigianale, in quanto più del 25% delle sono ora in mano alla multinazionale AB Inbev, i prodotti e la qualità del brewpub non sono in discussione. La Meridian IPA e la County Bourbon Stout sono considerate birre più che valide e l’opportunità di trovarle con facilità anche in luoghi non consueti è un incentivo alla diffusione del lifestyle americano, che vede la birrificazione artigianale come un modo per evadere non solo da prodotti di qualità infima, ma anche dalla spietatezza di consumi delle multinazionali birrarie. Che questa anticamera al mondo della birra artigianale venga proposta da un birrificio che non si possa più definire tale è una questione molto particolare, ma che nulla toglie, a mio avviso, all’ottimo lavoro fatto in questi anni da Goose Island.

La Shark Meets Hipster di Dry Hop, una delle tante Wheat IPA che stanno invadendo gli States
La Shark Meets Hipster di Dry Hop, una delle tante Wheat IPA che stanno invadendo gli States

Wheat & Rye Pale Ale, le glorie locali

Attualmente frumento (wheat) e segale (rye) possono essere considerati due ingredienti must per gli americani. In qualunque brewpub, tra Chicago o Indianapolis, non può mancare una birra fatta con una di queste due materie prime, così caratterizzanti.

Partiamo dalle Wheat Pale Ale. Lo stile di queste birre è un prodotto principalmente americano, benché in origine si ispiri alle classiche Weizen tedesche. I birrifici made in USA le realizzano oscillando tra il genere Weizen e quello Pale Ale rivisto in chiave statunitense. Il risultato è una birra molto piacevole, beverina, che ha un corpo molto simile a quello delle birre di tedesca memoria, ma i luppoli più pronunciati in stile americano. È impossibile non accorgersi di una gradevole frizzantezza al palato, mentre a differenziarle principalmente dalle cugine europee è l’assenza di esteri che conferiscono il tipico gusto di banana delle birre di frumento tedesche. La Gumballhead del birrificio Three Floyd’s e la Shark Meets Hipster di Dry Hop, sono sicuramente due esempi paradigmatici di questo stile, nonché, a mio avviso, due eccellenze assolute.

Da menzionare anche un genere più di nicchia, quantomeno nei luoghi che ho visitato, ma molto apprezzato come quello delle Rye. Negli USA mi è capitato spesso di trovarlo nella versione Imperial Pale Ale, per esempio nel favoloso birrificio Black Acre dell’Indiana, dove è stata la Noxious Beast a farla da padrona. Per scoprire però nel dettaglio le mie bevute nei birrifici di Indianapolis e Chicago, vi consiglio di leggere i prossimi articoli che pubblicherò qui su Cronache di Birra.

L'autore: Niccolo' Costanzo

Romano. Occasionale scrittore, frequente bevitore, ha sfruttato la sua prima esperienza negli Stati Uniti per conto del suo sito di pallacanestro per iniziare a scrivere di birra. La patria del luppolo lo ha stregato, ma lo stile inglese rimane nel suo cuore. Ha smesso di bere acqua da quando ha scoperto la Framboise di Oud Beersel.

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3 Commenti

  1. grazie! bell’articolo…. quanto mi piacerebbe fare un viaggio così. 🙂

  2. articolo molto interessante, ti segnalo un probloma, il link al pdf presente nell’articolo non è corretto

    ciao

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