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Di birra, musica e dei concetti di commerciale e industriale

Nei miei tanti anni di militanza nel settore della birra artigianale, spesso mi è capitato di ascoltare l’opinione di chi trova analogie tra il nostro mondo e quello della musica. E in effetti non è raro imbattersi in punti d’incontro tra le due realtà: dai birrifici che chiamano le loro produzioni ispirandosi agli stili musicali fino ai gruppi rock che lanciano le loro birre ufficiali. In tempi recenti sono stati addirittura proposti abbinamenti tra birra e musica, fenomeno che ha generato persino blog dedicati ed etichette birrarie con consigli all’ascolto. Rientra in questa curiosa fattispecie il libro A suon di pinte di Luca Modica, che ho cominciato a leggere giusto ieri e che mi ha già solleticato qualche riflessione.

Il primo abbinamento proposto dal libro è tra Clash (in particolare l’album Sandinista!) e Punk Ipa di Brewdog. L’accostamento può sembrare più banale di quanto in realtà non sia, perché l’autore non si è limitato ad affiancare un gruppo punk a una birra che porta il nome del medesimo stile musicale, ma è andato oltre. Non essendo io un profondo conoscitore dei Clash, in particolare mi ha colpito il passaggio in cui si sottolinea come la band inglese venne tacciata di essere diventata ben presto commerciale, riuscendo tuttavia a imporre uno stile unico e facilmente identificabile. E l’analogia con Brewdog e la sua birra di punta è clamorosamente calzante: la Punk Ipa ha convertito alla birra craft migliaia di giovani bevitori ridefinendo uno stile, ma è anche stata oggetto di critiche per il suo costante “imbarbarimento”, cresciuto di pari passo con l’ascesa del birrificio scozzese.

In questo interessante paragone c’è un concetto che merita attenzione: quello di “commerciale”. Ovviamente mi riferisco all’accezione negativa del termine, che indica un prodotto di scarso valore artistico e di alto valore economico, spesso rappresentante il frutto di un processo di impoverimento etico e artistico. Il vocabolario della Treccani spiega il significato del termine in questo modo:

In senso più spreg., di opera dell’ingegno prodotta o realizzata soprattutto a fini di diffusione e di guadagno, priva perciò di pregi intrinseci e di qualità artistiche o di valore scientifico: un libro, un dipinto, un film c.; un’enciclopedia molto commerciale.

Nel mondo della musica è un’espressione che si usa spesso per aggettivare in maniera negativa un brano, un album o un gruppo. Personalmente da ventenne mi ricordo intere serate spese a denigrare (giustamente, lo sottolineo 😛 ) i gusti musicali dei miei amici, accusandoli di ascoltare roba disperatamente “commerciale”. E se dovessi oggi giudicare la carriera dei Metallica – tanto per fare un nome – non esiterei dal sottolineare come siano diventati estremamente commerciali dal Black Album in poi (compreso o no, decidete voi).

Dunque spesso l’aggettivo “commerciale” indica nel mondo della musica un prodotto qualitativamente opposto a quello di “buono” o “valido”. Ma nel mondo della birra lo stesso termine difficilmente viene usato con lo stesso significato: il male assoluto per il nostro ambiente è invece rappresentato dai prodotti “industriali”. Quindi possiamo affermare che “industriale” sta alla birra come “commerciale” sta alla musica.

E che succede se parliamo di una birra “commerciale”? Sicuramente non è un’espressione positiva, ma neanche automaticamente disprezzante. Ha nel nostro mondo una sfumatura semantica molto più neutra e probabilmente la causa è da ricercare nell’origine del prodotto: la musica è (o dovrebbe essere) prima di tutto arte, la birra – per quanto possiamo riempirci la bocca di belle frasi fatte – è invece principalmente un bene di consumo. E in quanto tale risulta molto più naturale associarle il concetto di “commerciale”.

Ora arrivo al punto. Quando si giudica una birra o un birrificio, secondo me spesso si confonde l’accezione di “industriale” con quello di “commerciale”. Un birrificio, ancorché artigianale, è un’azienda e in quanto tale ha come obiettivo primario quello di allargare il proprio mercato. Cioè di orientarsi sempre di più verso un dimensione commerciale. Per riuscirci può compiere diverse scelte strategiche, molte delle quali possono riguardare il processo strettamente produttivo.

Ma c’è modo e modo di ampliare la propria fetta di mercato: sappiamo che le multinazionali lo fanno nel modo peggiore, annullando totalmente il carattere delle proprie birre e ricorrendo a soluzioni per allungare la vita e la conservabilità dei propri prodotti. Per questo il mercato è pieno di anonime Lager industriali, che usano conservanti, coloranti, pastorizzazioni e filtrazioni spinte e vengono realizzate in serie annacquando in maniera differente singole cotte. In questi casi il fine ultimo, per cui le multinazionali vengono dileggiate, non è produrre una buona birra, ma semplicemente qualcosa di molto redditizio con buona pace delle nostre papille gustative. È esattamente analogo a quanto accade nel mondo della musica quando si predilige il valore economico al posto del valore artistico.

Quelli delle multinazionali rappresentano però casi limite, o comunque fattispecie molto precise. Un birrificio può scegliere di allargare la propria fetta di mercato – cioè diventare più “commerciale” – senza necessariamente sacrificare il valore dei suoi prodotti. Spesso appena un microbirrificio inizia a ampliarsi capita che gli appassionati inizino ad accusarlo di essere diventato industriale. In realtà aumentare la produzione, aggiungere controlli automatici in alcune fasi, migliorare il processo di imbottigliamento e infustamento sono innovazioni che, paradossalmente, possono migliorare la qualità delle birre di un microbirrificio. Da lì a essere considerato industriale, nel senso più spregiativo del termine, esistono almeno un centinaio di step ulteriori.

Per questa ragione accusare un microbirrificio di essere diventato industriale perché passa da 2.000 a 10.000 hl annui è chiaramente folle – anche perché l’industria 10.000 hl li produce in un giorno. È una sorta di integralismo molto egoista secondo il quale qualsiasi birrificio diventi un attimo più reperibile sia meritevole dei peggiori insulti. È un approccio ononastico alla birra artigianale che a me piace poco, per il quale il criterio principe che dovrebbe guidare i nostri giudizi – cioè la piacevolezza di una birra – passa completamente in secondo piano. Esistono microbirrifici minuscoli che producono porcherie e aziende brassicole molto più grandi che propongono vere e proprie perle brassicole. E che continuano a farlo anche quando diventano un po’ più commerciali.

Cosa ne pensate?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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9 Commenti

  1. L’analogia tra birra e musica è un punto di riflessione interessantissimo e molto stimolante, che apre nuovi scenari a chi ha la fantasia galoppante (come me).
    Ho appena ordinato il libro di Luca Modica e dopo questo articolo fremo dallo scoprire altre riflessioni al riguardo, o analogie tra birre e gruppi.
    Da forte appassionato di tutti e due i mondi, non posso che apprezzare 😉

  2. In riferimento all’abbinamento tra Clash e Punk Ipa, passi pure l’affiancare un gruppo punk rock a una birra che porta il nome del medesimo stile musicale, ma sostenere che la band inglese in questione sia presto diventata commerciale, mi sembra totalmente fuori luogo. Tra l’altro, l’album menzionato (Sandinista!) quando uscì era un vinile triplo (il che cozza non poco con commerciale) e le sonorità che lo contraddistinguono sono più riconducibili alla black music che al punk rock.
    Per quanto riguarda il discorso tra industriale e commerciale, d’accordo con Andrea.

    • No aspetta, lungi da me svilire il lavoro di Luca. Ho scritto di non conoscere i Clash e infatti probabilmente sono stato un po’ fuorviante, tanto che nel libro proprio Sandinista! viene presentato come risposta non commerciale a tutti coloro che già si erano affrettati a definire commerciali i Clash.

      • Andrea, per carità, non l’ho pensato neanche per 1 secondo.. E’ proprio il termine ‘commerciale’ che secondo me cozza completamente con i Clash che, tra l’altro, era una band abbastanza politicizzata a differenza di molti altri gruppi punk-rock ’77. ‘London Calling’ è un manifesto, un inno generazionale. Se ciò viene recepito come comerciale, beh, allora sarò io che non ho capito niente.. 😉

        • Cito il passaggio così evito di scrivere baggianate 🙂

          “Qualcuno potrebbe insinuare che non sia una vera IPA, alla stessa maniera dei “duri e puri” che accusarono i Clash di non essere abbastanza punk già dopo London Calling del 1979. Un anno dopo la risposta di Strummer e soci la si trovava in Sandinista: politica, provocazione, internazionalismo, oltre a innovazione musicale naturalmente.”

          • Joe Strummer è stato un fuoriclasse. “Duri e puri” fa spesso rima con “le chiacchiere stanno a zero”, quindi si, ci sta… 🙂

  3. Mi sa che mi tocca comprare il libro, il bell’articolo (bravo andrea) mi ha fatto venir voglia di leggere!!!!
    Personalmente distinguo birra di qualità da birra non di qualità e se poi un microbirrificio produce 10000hl e fa buona birra complimenti a loro per avere un bravo imprenditore e dei bravi commerciali che sanno vendere perchè fanno capire la qualità del prodotto.
    Spero, per chi se lo merita, che la birra di qualità diventi più commerciale!!!!!

  4. Oooooh e finalmente. Sono PERFETTAMENTE d’accordo con l’articolo. E’ ora di finirla con questo fondamentalismo becero:
    birra artigianale = prodotto ottimo, comunque
    birra non artigianale = orrore, sempre
    Ci sono birre buone, altre ottime e moltissime che fanno letteralmente schifo (secondo i diversi gusti e circostanze). Punto. Il produttore e quanta ne faccia, sono aspetti che (per me) seguono successivamente al prodotto. Italiano o meno.

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