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Lo strano caso della legge Marescalchi sulla birra: spesso citata ma mai esistita

Capita a volte che il mero copia e incolla fornisca, con il passare del tempo, credibilità a racconti che in realtà non hanno alcun fondamento storico, ma che hanno continuato a circolare in virtù del “sentito dire”, spesso basandosi su assunti non verificati. Ancora oggi alcuni miti birrari faticano a sparire, ma mai avrei immaginato che mi sarei imbattuta in un mito diventato legge. Il riferimento è alla cosiddetta “legge Marescalchi”, che, secondo quanto riportato da diverse fonti odierne, sarebbe stata promulgata nel 1927 per imporre ai birrifici l’impiego di una percentuale di cereali diversi dal malto d’orzo. Una vicenda che tutti danno per scontata, come una verità che diventa tale solo perché rilanciata dal passa parola. Ma una ricerca più approfondita rivela una storia completamente diversa: la legge Marescalchi semplicemente non è mai esistita.

La genesi di questo lavoro di ricerca risale ai mesi di clausura forzata per la pandemia e agli approfondimenti online che, grazie a Unionbirrai, all’UB Academy e agli altri amici docenti, avevano permesso di passare quotidianamente qualche oretta in un pub virtuale, parlando di birra e facendo cultura. Fu durante uno di quegli appuntamenti che mi ritrovai a raccontare la storia dei grandi marchi birrari dell’Ottocento e Novecento italiano, finendo immancabilmente per citare la famigerata legge Marescalchi. I riferimenti alla norma si trovano in molti testi online che trattano di storia della birra nostrana: un decreto del 1927 che, si diceva, obbligava i produttori  brassicoli ad utilizzare nelle loro ricette almeno un 15% di riso e di mais. Una legge protezionistica che, assieme alla battaglia del grano, era diventata uno degli strumenti per combattere il largo utilizzo di malto d’orzo proveniente dall’estero e favorire le colture nazionali, anche a scapito della qualità. Durante una di queste lezioni era scaturita la curiosità di identificare il momento in cui tale legge era stata poi abrogata o sostituita da altro decreto successivo. Iniziai pertanto una lunga ricerca parecchio approfondita, basata su archivi storici, riviste dell’epoca e confronto con altri esperti in materia. I risultati furono davvero inaspettati.

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Non ho trovato, infatti, alcuna notizia di questa fantomatica legge. L’enologo Arturo Marescalchi, sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste dal 1929 al 1935, deputato del Regno d’Italia dal 1919 al 1934 e successivamente senatore dal 1934 al 1944, fu un politico molto interessato a curare gli interessi del mondo del vino e dell’enologia. Durante la sua attività presentò solamente tre proposte di legge con argomenti riguardanti un “Consorzio fra Comuni del Monferrato e dell’Astigiano per l’Acquedotto”, una “Istituzione dell’agronomo comunale e intercomunale” e una “Assicurazione obbligatoria contro i danni della Grandine”. Nessuna di queste proposte divenne poi legge. Di sicuro Marescalchi è stato parte integrante di molte scelte e discussioni relative al mondo dell’agricoltura e quindi, immagino, anche di cereali utilizzati in birrificazione, ma non con una legge. Né dunque ha mai definito l’obbligo di utilizzo di succedanei come il mais e il riso.

Già prima degli anni Trenta dello scorso secolo il dibattito sulle materie prime trovò ampio spazio a livello europeo e alcune nazioni avevano intrapreso una strada ben definita per distinguere le birre con l’utilizzo di solo malto d’orzo da quelle con succedanei. Le nazioni più vocate alla produzione e al consumo di birra avevano già preso, o stavano prendendo, posizione in questo senso: in Cecoslovacchia la birra si produceva solamente con malto d’orzo, in Austria si distingueva tra “birra di puro malto” e “birra di…”, dove invece era permesso l’uso di succedanei, salvo riportare un’indicazione chiara a partire dalla denominazione. Con riferimento alle birre tedesche, invece, la distinzione era tra birra a bassa fermentazione, di grande qualità, prodotta con il solo malto d’orzo, e birra ad alta fermentazione, che prevedeva l’utilizzo anche di altri cereali e che in Italia veniva definita, con sufficienza, “birretta”. In Francia, infine, una legge del 1905 aveva distinto tra “bière” e “petite bière”, in base alla densità del mosto. Spesso però la seconda denominazione si applicava a birre prodotte ad alta fermentazione e con succedanei.

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Tornando al nostro paese, dobbiamo riportare, come punto di partenza della nostra ricerca, il Regio Decreto del 1901. Nello specifico l’articolo 121 recitava:

Nessuno può vendere, ritenere per vendere o somministrare come compenso ai propri dipendenti, birra fabbricata con altra materia prima che non sia il malto d’orzo o di altri cereali, il luppolo, il lievito o fermenti selezionati, colorata con materia diversa da quella che proviene dal malto torrefatto; nonché birra in cui siano state aggiunte per chiarirla, conservarla o per altro scopo, sostanze estranee e nocive, quali i solfiti, l’acido salicilico, l’acido borico, l’acido ossalico e la glicerina.

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Sfogliando le riviste dell’epoca si nota come, nonostante il divieto del Regio Decreto, esistesse anche della birra prodotta con cereali non maltati, ossia con mais, riso e frumento grezzi. Tuttavia rappresentava un prodotto differente, considerato di qualità spesso inferiore, e in molti sostenevano che dovesse essere posto in vendita indicando il cereale utilizzato, a partire dal nome. Il tema era dibattuto e portò infine ad una circolare ministeriale del 1932 dove venne espressamente fatto obbligo di indicare nella denominazione il cereale utilizzato, qualora fosse presente in un quantitativo superiore al 25%. Comparve il termine risogia, ad indicare la birra di riso, in contrapposizione alla cervogia, di solo malto d’orzo.

L’impiego del riso in birrificazione aveva avuto inizio in un periodo di poco antecedente alla prima guerra mondiale, per mere questioni di costo della materia prima, dato che il cereale costava molto meno del malto d’orzo. Il riso utilizzato era perlopiù uno scarto della lavorazione, che veniva utilizzato come mangime per gli animali oppure per la produzione di farine industriali. Per dare un’idea dei costi dell’epoca, un quintale di malto d’orzo costava 200 lire, mentre quello di risina o mezzagrana (lo scarto) costava 90 lire. Negli anni Trenta due terzi del malto d’orzo utilizzato in birrificazione era di produzione estera, anche se il regime stava, da qualche anno, intervenendo con iniziative protezionistiche come la battaglia del grano per incentivare produzione e consumo di materie prime nazionali. Il riso utilizzato in birrificazione, invece, si attestava a meno del 20%.

Dato che il prezzo minimo di vendita della birra, in quegli anni, era stabilito dal monopolio delle vendite, il tentativo di prevalere sulla concorrenza poteva portare, talvolta, a decisioni che rincorrevano i prezzi bassi con materie prime di seconda scelta, pur di vendere di più e massimizzare il profitto. Anche in virtù di alcune scelte governative come i patti di rispetto della clientela, il peso specifico dei grandi produttori era sempre maggiore. Nati per disciplinare e incentivare lo sviluppo commerciale, i patti finirono invece per creare una sorta di monopolio nelle mani di pochi grandi marchi, che acquisirono le realtà più piccole e appiattirono notevolmente la proposta birraria, contribuendo a definire il gusto e i consumi dell’epoca.

Possiamo quindi ipotizzare che nelle argomentazioni del periodo si discutesse anche di diverse percentuali di utilizzo di altre materie prime, al di là del malto d’orzo, così come della qualità del prodotto finale. In un’interrogazione alla Camera dei Deputati del dicembre 1927 si chiese al Ministro Marescalchi “un’azione concorde e immediata per una intensa e continua propaganda attraverso i nuovi organismi corporativi, al fine di aumentare il consumo popolare del riso, ora purtroppo irrisorio”. Possiamo inoltre immaginare che nel frattempo si provasse a rendere comunque appetibili prodotti che utilizzavano materie prime succedanee, ma al tempo stesso nazionali, per massimizzare un profitto che doveva fare i conti con una tassazione crescente che da subito aveva guardato al mondo dei produttori di birra nazionali.

Senza l’ausilio di una legge scritta che quindi non venne mai abrogata perché mai promulgata.

Alessandra Agrestini
Alessandra Agrestini
Bellunese di nascita, bolognese o meglio sanlazzarona d’adozione. Dicono di lei: "Una mente in continuo fermento che si entusiasma quando si parla di birra artigianale. E soprattutto porta sempre da bere ottime birre!". Consulente e divulgatrice birraria freelance, collabora con diverse associazioni per docenze e corsi a tema birrario. È anche giudice internazionale.

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4 Commenti

  1. Grazie Alessandra per l’articolo, sono senza parole! Ho sentito presentare la legge Marescalchi in talmente tante lezioni della storia della birra italiana che l’ho data talmente per scontata che l’ho messa anche io nella mia presentazione.
    Ti lascio uno spunto per un prossimo approfondimento. L’altra grande accusa che si faceva a questa fantomatica legge era anche quella di aver introdotto le accise sulla birra, è quindi falsa anche questa attribuzione? E se così fosse da dove arrivano?

  2. Ciao Fabio, grazie a te per il commento. Ti dirò che ho veramente cercato notizie in ogni dove, senza trovare traccia; mano a mano che procedevo con la ricerca, però, ho superato il senso di incredulità iniziale, e questo articolo è uscito di botto.
    Per quanto riguarda invece le accise sulla birra, sono praticamente iniziate già a partire dai primi anni dall’avvento della birra, in quelli che sono i confini attuali nazionali. Già nel 1864, infatti, si registra un’imposta sulla fabbricazione di birra e acque gassate, identificandola come la prima accisa post Unità d’Italia, arrivata ben prima della tassazione su materie esplosive, spiriti e zucchero.

  3. Ciao Alessandra, “mai dire troppo tardi” dopo circa un anno facendo scrolling sul web leggo questo interessante articolo, del quale una parte chiedo il consenso di condividerlo sul mio profilo facebook.
    Sono un appassionato del mondo della birra con una storia che inizia dal 1983 come gestore di un Pub, poi a seguire una serie di situazioni, sempre nello stesso campo, fino ad arrivare ai giorni nostri.
    Mi sia concesso di dire la mia in merito alle accise sulla birra, fatto salvo quanto già riportato in risposta a Fabio, sono convinto che la tassazione sulla birra ha origini remote secolari, come risaputo nel 83 d.c. Gneo Giulio Agricola aprì a Roma una locanda per la somministrazione di birra, non esistono testi ufficiali per comprovare quanto di seguito riportato, ma da notizie frammentate sembra che il successo riscontrato dal primo locale diede origine ad aprirne altri (circa una decina), la popolarità non passò inosservata ai Senatori Romani che decretarono in tempi brevi l’aumento delle tasse sulla birra. Tanto fù sproporzionata la tassazione che nel giro di poco tempo tutti i locali chiusero i battenti. Praticamente non è cambiato nulla.

    • Ciao Franco, grazie per il commento. Non è mai troppo tardi, anzi, mi fa piacere che questo pezzo risulti ancora interessante e puoi condividerlo senza problemi, citando la fonte, per favore. Per quando riguarda la questione accise, il mio cenno riguardava il periodo successivo all’avvento dei grandi marchi in Italia, ma in termini storicamente più ampi la tassazione ha seguito ogni attività economica fin dalla notte dei tempi, hai ragione.

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