Immaginate se qualche anno fa vi avessero detto che nella vostra città stavano per organizzare un grande festival birrario, con produttori provenienti da tutto il mondo. Immaginate come avreste reagito conoscendo i nomi dei birrifici artigianali presenti: 10 Barrel (USA), Birra del Borgo (Italia), Blue Point (USA), Camden Town (UK), Cervejara Colorado (Brasile), Elysian (USA), Four Peaks (USA), Goose Island (USA), Redhook (USA), Boxing Cat (Cina), La Virgen (Spagna). Un elenco di tutto rispetto, con la differenza che oggi a comporlo non sono più dei birrifici indipendenti, bensì dei marchi controllati (in parte o totalmente) dall’industria. In particolare le aziende menzionate fanno tutte capo alla sola AB Inbev, la più grande multinazionale della birra operante sul pianeta e ben più conosciuta per prodotti come Budweiser, Corona, Stella Artois, Beck’s, Leffe e altri ancora. Ma che negli ultimi tempi, come forse saprete, si è lanciata con una tale forza nel mondo craft da rendere possibili inquietanti giochini mentali come quello di apertura.
In pochissimi anni AB Inbev – ma lo stesso potrebbe valere per altre multinazionali, sebbene in maniera meno evidente – ha colmato totalmente un vuoto nella sua offerta, rappresentato da qualcosa che andava oltre quei prodotti tradizionalmente rientranti nella categoria “super premium”. Parliamo ovviamente della birra artigianale, un fenomeno totalmente diverso da qualsiasi etichetta gli uffici marketing avessero inventato nel mondo brassicolo prima del suo boom internazionale. Snobbata per anni, la rivoluzione craft ha preso in contropiede l’industria, almeno finché quest’ultima non ha inaugurato la sua stagione dello shopping tra i piccoli produttori indipendenti. E così nel volgere di qualche primavera ci troviamo a muoverci in un contesto nebuloso e confuso come non mai, dove accanto ad autentiche birre artigianali si moltiplicano gli scimmiottamenti dell’industria – leggi i prodotti crafty – e i marchi improvvisamente passati nelle mani delle multinazionali.
Oggi più che mai è opportuno cercare di mettere ordine nel mercato, cioè distinguere i birrifici realmente craft da tutte le altre fattispecie, che invece si associano al concetto di birra industriale. La distinzione è fondamentale per il consumatore finale, perché è importante che sappia cosa sta acquistando. Tuttavia questa distinzione non è un postulato di qualità: una birra davvero artigianale non è migliore di una industriale, almeno non per definizione. Se un birraio è incapace, il frutto del suo lavoro sarà senza alcun dubbio qualcosa di imbevibile. Allo stesso modo esistono birre industriali che sono migliori di tantissime controparti artigianali. Ma il punto non è questo. Il punto è che chi acquista un prodotto deve sapere per cosa sta sborsando i suoi soldi. E purtroppo in questi anni le multinazionali hanno contribuito – strumentalmente o meno – a rendere questa presa di coscienza sempre più difficile.
Partendo da questa premessa, nel post di oggi mi sembra utile stilare una lista di birre che sono solo apparentemente artigianali, ma che – per un motivo o per un altro – non possono essere considerate tali. Dall’estate dello scorso anno in Italia esiste una definizione legislativa di “birra artigianale”, quindi finalmente possiamo tracciare una linea di demarcazione (quasi) precisa senza affidarci alle considerazioni soggettive di ognuno. Quelle che seguono, quindi, sono birre non artigianali presenti nel mercato italiano. Se le incontrate, sappiate che state acquistando birra industriale. Siete liberi di farlo, ci mancherebbe, ma almeno non rischierete di essere presi in giro.
Elenco aggiornato al 5 luglio 2018.
Prodotti crafty
- Heineken H41 – Classico esempio di birra crafty: ricalca nel packging e nel linguaggio i tratti della birra artigianale, ma ovviamente è in tutto e per tutto un prodotto industriale.
- Poretti – Uno delle più riuscite operazioni di posizionamento di un prodotto crafty. Le X Luppoli di Poretti sono in realtà birre industriali, poiché il marchio è di proprietà di Carlsberg.
- Norden – Linea crafty creata da Ceres appositamente per il mercato italiano (non ricordo anche se per altri).
- Le Regionali Moretti – Giovane linea di Birra Moretti, che – ricordiamolo – è un brand del gruppo Heineken. Nonostante il linguaggio e le collaborazioni con importanti chef italiani, sono birre totalmente crafty. Lo stesso vale per la Moretti Grand Cru, che, giusto per non confondere le acque, pare avere non pochi punti in contatto con la Affligem Blonde.
- Blue Moon – Ancora oggi molti pensano che Blue Moon (marchio americano talvolta disponibile in Italia) sia artigianale, in realtà è da anni (se non decenni) in mano a Molson Coors.
- Re-brew – Classico prodotto crafty di Carlsberg, che sarebbe stato creato con il lievito recuperato da antiche bottiglie dell’800.
Industriali italiane (ma spesso confuse per artigianali)
- Menabrea – È un marchio indipendente italiano – nel senso che non fa capo a nessuna multinazionale – ma non può essere considerato artigianale. Lo stesso vale per tanti marchi border line italiani, come Forst, Castello e Pedavena (alcuni di questi neanche indipendenti). Sullo status di Theresianer ho qualche dubbio, perché bisognerebbe capire se pastorizza e microfiltra.
Ex artigianali straniere
- Goose Island – Di proprietà di AB Inbev dal 2011.
- Ballast Point – Controllata da Constellation Brands.
- Camden Town – Controllata da AB Inbev.
- Founders – Il 30% è in mano a San Miguel.
- Lagunitas – La metà delle quote è di proprietà del gruppo Heineken.
- Magic Hat – Controllata da North American Breweries.
- Redhook – AB Inbev ne controlla il 32%.
- Terrapin – Di proprietà di MillerCoors.
- Trou du Diable – Il 100% delle quote sono state acquistate da Molson Coors.
- Beavertown – Parte delle quote sono in mano a Heineken.
- Anchor – Anche il capostipite dei birrifici americani ha ceduto alle lusinghe dell’industria: ora è di proprietà di Sapporo.
- Meantime – Acquistata nel 2015 da Sab Miller, è attualmente di proprietà di Asahi.
- Firestone Walker – Dal 2015 è controllata da Duvel.
- Fuller’s – A inizio 2019 è stata ceduta ad Asahi.
Ex artigianali italiane
- Birra del Borgo – Come accennato è di proprietà di AB Inbev, che nell’aprile del 2016 ne acquistato il 100% delle quote.
Al momento è l’unico esempio di birrificio nato durante la rivoluzione craft italiana che è stato acquistato da una multinazionale. Chissà se e quando si verificherà un secondo caso. - Birrificio del Ducato – Nel luglio del 2017 il marchio belga Duvel ha acquistato il 35% delle quote dell’azienda emiliana, salite poi al 70% dopo qualche mese (evoluzione che avevamo ampiamente previsto).
- Birradamare – Sempre nel luglio del 2017 il birrificio del litorale laziale ha ceduto la totalità delle sue quote alla multinazionale Molson Coors.
- Hibu – A inizio ottobre 2017 il 100% delle quote di Hibu sono passate in mano a Dibevit, società del Gruppo Heineken.
Morale della favola: scegliete cosa bere, ma siate liberi di farlo. Che tradotto significa avere la consapevolezza di cosa si sta acquistando. La speranza è che questo elenco possa essere di ausilio e se ho dimenticato qualche marchio – parliamo di quelli più diffusi in Italia, sia chiaro – segnalatemelo perché sarò ben felice di integrare.
Theresianer non è artigianale. Rimane comunque un piccolo produttore rispetto ad altri giganti.
Sì e anche rispetto agli altri menzionati nella categoria “border line”. Se non sbaglio ha una produzione poco superiore a Baladin
Alcune 33cl. Theresianer non sono filtrate. Le 75cl. Non lo sono.
Per la legge ti basta produrre una birra pastorizzata o microfiltrata per non essere un birrificio artigianale
Sicuro?
Sì, ma se hai informazioni e fonti diverse facci sapere
Meantime (UK) diventata prima di SAB Miller e poi di Asahi
Ah, la stessa fine di Peroni quindi…
Esatto. Avevo intervistato Rod Jones tramite loro
http://www3.varesenews.it/blog/maltogradimento/preparazione-fantasia-duro-lavoro-e-tanto-freddo-cosi-abbiamo-scosso-il-mondo-della-birra-inglese/
Ho sempre detto,da anni,che l’aspirazione di parecchi birrifici crafty,è di diventare industriali. Sono stato sempre criticato,ma continuo a pensarla così. Si comincia con la passione,per arrivare al grande business,ovviamente, spesso trascurando le birre,modificandole e rendendole più facili alla massa. E non più lasciandole come all’origine,cioè come veramente piacevano.
Si perchè le birre artigianali devono essere solo ricette di nicchia, magari prodotte solo 100 bottiglie, inchecchiate che fa legno, per i 4 nerd che appena il tuo birrificio passa di moda, ti girano le spalle. ma per favore. Gli stili “da bere” o come dici te” da massa” sono quelli che fan fare volume (e utile) al birrificio.
Anche la Kona (Hawaii) non e’ piu’ indipendente. Un periodo l’ho trovata alla Coop insieme a Redhook
Menabrea è di proprietà di Forst.
Più in generale, personalmente non condivido l’ostracismo di alcuni gestori di pub e birrerie, nonché di gran parte della clientela artigianale, nei confronti delle crafty in quanto crafty.
È diventata una questione filosofica ed elitaria: se non è artigianale non la servo e non la bevo.
Founders produce una porter molto buona (anche se più “ruffiana” come molte porter americane), Redhook un’american ipa sicuramente non eccezionale ma quanto meno dignitosa. Stessa cosa per Widmer Brothers e Kona (entrambe appartenenti allo stesso consorzio crafty di cui fa parte anche Red Hook).
Diverse persone hanno perso simpatia ed interesse per Birra del Borgo dopo l’acquisto da parte di AbInbev, ma se continuerà a produrre una buonissima Reale o Reale Extra, perché dovremmo rinunciarci?
Con una produzione di oltre un milione di barili all’anno, come dovremmo considerare Sierra Nevada? E se Sierra Nevada fa una buona pale ale paragonabile (se non superiore) a diverse birre “artigianali doc”, perché disprezzarla?
La professionalità, l’abilità, l’esperienza e la passione del birraio sono tutte qualità eccellenti e gratificanti ma alla fine del bicchiere credo che tutti desiderano ritenersi soddisfatti per aver bevuto una buona birra. Se è crafty, tutto sommato, che problema c’è?
Pace e amore, ciao 🙂
In realtà il tuo commento e l’articolo stesso mettono insieme cose molto diverse (e non tutte etichettabili come crafty). Le varie Poretti/Moretti/Norden sono industriali che si voglio cammuffare da artigianali, a parte il risultato organolettico (in genere trascurabile) l’operazione se non ingannevole è per lo meno discutibile… ma su queste penso siamo tutti d’accordo.
Theresianer e Menabrea e tante altre nel resto del mondo (penso a birrerie di tradizione familiare in UK) sono oneste birrerie industriali di piccole dimensioni – potrebbero sotto questo punto di vista anche rientrare nelle artigianali – che continuano a proporre i loro tradizionali prodotti, piu’ o meno validi (e talvolta ottimi pensando a certe birrerie in Belgio e UK). Sierra Nevada è una “craft” cresciuta di dimensioni con le proprie forze, senza a mio parere perdere in qualità. Insomma personalmente su una SN (o una Fuller’s) un “ostracismo” non lo comprenderei ne dal punto di vista qualitativo ne per cosi’ dire “etico”. Ancora diverso il caso di Birra del Borgo (e simili). Sono convinto che almeno nel breve e forse nel medio periodo qualità e metodo di produzione saranno invariati, e le birre le berro’ ancora (magari cercandole meno ;-)) ma capisco bene la scelta dei publican che hanno deciso di non tenerle piu’: “BdB hai fatto la tua scelta, sei passata dall'”altra parte”: no problem, ma non hai piu’ bisogno di me publican appassionato che ti ha magari scoperto e sempre sostenuto e che vuole continuare a farti conoscere, ora hai ABINBEV che ci penseraà ottimamente, buon per te, saluti e auguri per la tua nuova strada.”
>È diventata una questione filosofica ed elitaria: se non è artigianale non la servo e non la bevo.
Io ne faccio anche una questione di prezzo: una industriale (tipo moretti con le regionali) nel 99% dei casi se vende la sua birra al prezzo di una artigianale lo fa solo per cavalcar la moda e per vendere un prodotto ad un prezzo disonesto per qualità, imho.
In Belgio INBEV si è pappata la BOOSTELS ovvero Kwack e Triple Karmelit … pagata 240 milioni per non farla cadere nelle mani di Heineken …
Ciao Andrea, per completezza di informazioni, dal 2016 Birra Moretti Grand Cru è di fatto una ricetta originale senza nessun punto di contatto con la Affligem.
Grazie Roberto. Questo non toglie che ha contribuito a creare quella confusione nella quale il consumatore è ormai impelagato.
Credo meriti un cenno “Le Baladin” di Piozzo (CN); Da lì è partito tutto.
Il boom delle birre artigianali in Italia non ci sarebbe stato, o ci sarebbe stato molto tempo dopo, senza le fantastiche produzioni risalenti ai primi del 2000 di Teo Musso derivate da una decennale esperienze come mastro birraio in molti birrifici di tutta Europa.
Una delle poche birre artigianali (che era) veramente buone..
Oggi “Le Baladin” è di proprietà di Farinetti (…Eataly…) Quindi ormai non si può più considerare artigianale
A parte che non mi risulta essere di proprietà di Farinetti, ma anche fosse non perderebbe la definizione di birrificio artigianale per questo motivo. Sono queste uscite a favorire la confusione nel settore.
Quoto Andrea. la definizione può essere parziale o non conidivisibile, ma se riusciamo d’ora in poi a usarla per definire chi è dentro e chi è fuori, come fa da anni ABA in USA, e iniziare a difendere il settore faremmo un bel balzo in avanti. Unionbirrai anyone? 🙂
Esatto… se è stato creato un “disciplinare” per distinguere le artigianali dalle altre, ci sarà un perché…(ed era ora, proprio per non confondere le acque e per dare anche il giusto prezzo) ora sono pienamente d’accordo con il sig. Andrea… iniziamo a dare il giusto nome prima di tutto, far chiarezza, e cosa più importante e non da sottovalutare è il perché si debba pagare una “birra” bei soldi nei confronti di altre…. per farla breve, un tavernello non può costare come un brunello o no???
Tutte seghe mentali inutili. Non l’avete ancora capito che il vero nemico della birra artigianale è il suo prezzo salatissimo?
L’esempio di Schroeder su Founders e Redhook non calza perché pur essendo esse birre industriali sono in un certo senso , per noi in Italia , delle artigianali per prezzo e reperibilità . Non è una scontro filosofico, ma se escludiamo le birre artigianali proprio pessime, le industriali (quelle classiche del super)non reggono minimamente il confronto con l’artigianale (a meno che non vogliamo bere le belghe da 9gadi tutta la vita).
Come in tutte le cose in Italia in questo momento stiamo vivendo una “bolla” dove tutti si gettano fiutando un grande business:conosco imprenditori con disponibilita’ economomiche che hanno aperto birrerie artigianali perche attratti dagli utili potenziali….
Scandalose sono alcune operzioni della grande insustria prima su tutte Poretti con i “suoi luppoli” operazione presa dal mercato automobilistico (audi A1/A2/A3/A4 ecc piu’ e’ alto il numero maggiore e’ la qualita’ del mezzo ed il prezzo).
Detto questo spero che questa bolla esploda lasciando sul mercato solo chi ha creato con ricerca e passione dei veri prodotti artgianali e di nicchia..(e’ risaputo che il prodotto artigianale e’ per sua definizione di nicchia)
Nel frattempo la proprietà di Lagunitas è passata al 100% di Heineken:
https://www.timeout.com/chicago/blog/lagunitas-brewing-company-is-being-sold-to-heineken-050417
E la Brew Dog? Venduta ovunque e con pub in giro per l’Europa? Resta craft? Comincio a essere confuso. Apro una bottiglia per chiarirmi le idee
Ma…qui si parla di indipendenti o meno, quindi mi pare che titolo dell’articolo e impostazione siano scorretti, sbagliati anzi oggettivamente, perché si confondono e associano due cose del tutto diverse e indipendenti tra loro.
Come si dice giustamente che non è che una birra artigianale è per forza migliore di una industriale (anche perché rimane molto soggettiva la valutazione di buono o meno), si dovrebbe specificare che l’indipendenza o meno, quindi l’essere da soli e distribuirsi da soli ecc., non c’entra nulla con l’essere artigianale o no, quest’ultima cosa non cambia se sei stato acquistato del tutto o in parte da una multinazionale.
Cioè, penso che per avere certe distribuzioni e se produci abbastanza, devi avere per forza certi canali e forza che possono avere solo grandi aziende, ma mica cambiano la mia birra dopo che io l’ho prodotta artigianalmente, ho chiuso le bottiglie e le spedisco nel mondo a negozi e altro tramite appunto i canali della multinazionale.
Certo che i soldi in quel caso vanno anche a quest’ultima, ma è l’unico modo magari se vuoi appunto raggiungere davvero molte persone, negozi, birrerie, ristoranti ecc. nel mondo o anche solo nella tua nazione, e credo che per tanti artigiani della birra ci sia cmq un guadagno maggiore così, proprio per le vendite molto maggiori che fanno, di quanto potrebbero fare avendo la proprietà completa della loro attività ma un giro di vendite molto minore.
Alessio tutto il tuo discorso parte da premesse sbagliate.
Parlare di indipendenza significa parlare di birra artigianale, perché è la legge che lo dice. L’ho scritto nell’articolo, ma lo ripeto volentieri: la legge vigente in Italia sulla birra artigianale afferma che questa definizione è associabile solo ai birrifici indipendenti. Non è una mia speculazione, è la legge. Spero sia chiaro.
Spendo anche due righe su un altro concetto, quello cioè della superiorità della soggettività sui criteri oggettivi. Esiste un margine di soggettività nella valutazione di una birra, ma si muove entro confini molto limitati. Per la maggior parte contano criteri oggettivi: a te può anche piacere che una birra sappia di solvente, ma purtroppo è un problema oggettivo della birra. Quindi non sarà in nessun caso una buona birra.
Quoto Michele la sua è l’unica vrità. Perché pretendere che il consumatore debba conoscere la storia o la proprietà o peggio, l’assetto societario di chi produce una birra? Perché i birrifici lasciano che l’industria li scimmiotti e li sminuaisca senza reagire?
Da quandi ci si impone sul mercato coi piagnistei o con i divieti e le esclusioni. Fate birre che piacciano al grande pubblico, buone perché ben fatte e non cercare d’incuriosire l’avventore di turno con ingredienti o tipologie esotiche e sopratutto ad un prezzo popolare.
La birra non è vino, questo semplice concetto non è ancora stato recepito dai nostri birrai e non c’è nessuno vero motivo che giustifica i pezzi della birra artigianale, se non la volonta di guadagnare sul poco, piuttosto che guadagnare sui volumi.
Addirittura ritenere un birrificio artigianale che poi col cambio di proprietà perde l’attributo artigianale e diventa industriale, ma non assangiando le birre, ma semplicemente perché è passato di proprietà, non ha il minimo senso.
Oltretutto molti dei nostri birrai favoriscono la confusione. E’ possibile che dopo più di 20 anni di movimento, ci siano ancora birrifici che in etichetta mettono, bionda, chiara, rossa, doppio malto?
Ma non si doveva fare cultura birraria? E’ possibile non dichiarare lo stile al pari dell’industria? Così facendo si fa il gioco dell’industria e si offre il fianco al nemico.
Più che unirsi come auspica Unionbirrai, i nostri birrai dovrebbero davvero svegliarsi e smetterla con le seghe mentali e guardare finalmente al concreto. Oppure trovare un modo di spiegare alla massa, che non guarda i forum o i blog, che la tua birra che chiami chiara è diversa da una Moretti.
Ma è tanto difficile da capire che non ho fatto alcun discorso sulla qualità, ma semplicemente sulla definizione di birrificio artigianale o non artigianale? Che per la cronaca non decido io, ma la legge vigente in Italia
Leggo: “Il punto è che chi acquista un prodotto deve sapere per cosa sta sborsando i suoi soldi”. Domanda: ma di chi cavolo stiamo parlando? CHI? Se è un acquirente competente (che capisca, almeno, cosa sia un’alta da una bassa fermentazione senza voler essere per forza un home-brewer), sa perfettamente cosa sta acquistando. Se è uno che, al massimo, ordina una “rossa” al posto di una “chiara” o “scura” ma che cosa volete che gliene possa fregare? Lui vuole una birra, magari che costi 50 centesimi. Questi ultimi, sono la stragrandissima maggioranza del mercato e gli va benissimo così: c’è scritto Birra? Ok! L’industria fornisce esattamente ciò che vuole “questa” domanda. Usano il termine “artigianale” per fregarli con prezzi più alti (ma sempre comunque inferiori a quelli dei veri artigianali)? Quindi? Vogliamo spendere due parole anche sul termine “bio”, allora? Se l’acquirente è ignorante (ma vuole fare il brillante lo stesso), l’unica soluzione è educarlo ammesso, ma non concesso, che lo voglia essere. Altrimenti, ci sono anche i mulini a vento di Don Quichotte come alternativa.
Secondo me fai una semplificazione esagerata del consumatore. Tra il nero e il bianco, il beer geek e il fan della Peroni ghiacciata, ci sono molte sfumature diverse. Non devi conoscere la differenza tra Stout e Schwarz per spingere i tuoi acquisti oltre la latta di Faxe. Altrimenti le multinazionali si sarebbero limitate e produrre i loro marchi tradizionali e non si sarebbero mai poste il problema dello slittamento dei consumi verso altri lidi. Così come bisognerebbe educare il consumatore sulla dicitura “bio”, lo stesso vale per quella di “birra artigianale”
Caro Andrea noi mosche bianche (beer geek?!?) non siamo neppure in terzo del mercato. Anzi. Tuttavia se su 10, in 7 non capiscono un tubo non è semplificare le cose: è vedere la realtà. Quante sfumature di grigio esistono, secondo te, e quanto sono rappresentative sul mercato? Ricordati che stiamo parlando di prodotti da supermercato, per gente che va al supermercato (senza offesa: ci vado anch’io) e non al Pub di tendenza o meno (senza offesa: ci vado anch’io). Io, di sti “grigi”, al supermercato non ne vedo però. Se dobbiamo invece parlare di pub, parliamo della serietà dei publican allora.
Le industrie “non si sarebbero mai poste il problema dello slittamento dei consumi verso altri lidi” se questo non portasse loro facili guadagni fatti sull’ingenuità (eufemismo) del cliente. Cosa ti dice che il consumatore VOGLIA esse educato sul termine “bio” o “birra artigianale”? Lo vedo solo io la gente che pretende le fragole a gennaio, come ad agosto o ottobre? O che mangia lo stesso pesce, quando il Mediterraneo offre decine di specie ottime e non sovra sfruttate? Leggono “bio” ed è OK. Leggono “birra artigianale” ed è OK. No brain involved. No brain no headache, pal (visto che ti piace l’inglese).
Dammi retta: se io semplifico, tu sovrastimi il consumatore. Esageratamente.
Signed off.
Sai che a 18 anni mi spaccavo di litri di Tennent’s Super? Per fortuna qualche publican ha avuto la voglia di spiegarmi delle cose per il semplice fatto di amare il suo lavoro e la birra.
E dovrebbero essere i birrai a farsene carico, istruendo i publican, è nel loro interesse, ma non lo fanno. D’altronde se ti proponi con la tua rossa o la tua chiara, chi vorresti istruire? Dovresti trovare prima qualcuno che istruisca te stesso.
x Andrea. I’m mister nobody, quindi non ti annoio su quello che è stato il mio iter ultra-trentennale in capo brassicolo (ho 50 anni tondi). Io sono stato mosso da puro interesse personale. Ho acquistato libri (credimi: farò un lascito testamentario alla scuola alberghiera qui vicino, perché è una libreria fatta e finita). Tu, come me e le altre poche mosche bianche avevi una “passione latente” che ti ha portato sin qui (e ti faccio sinceramente i miei complimenti perché non è da tutti, appunto) grazie ad un publican, io grazie ai libri (ed anche conoscenze personali successive) ma entrambi ci siamo mossi per nostro desiderio. Quanti come noi? Chi VUOLE, soprattutto sbagliando, si fa la sua esperienza ed approfondimenti. La quasi totalità invece va di Nastro Azzurro gelata, pizza ed amen, oppure si autodistrugge per puro masochismo, strafottendosene di cosa inghiotte. Scelte; che implicano un minimo livello culturale se di qualità, livello che vedo scarso o latitante tra la massa. Snob? SI’, mille volte sì!
x Stefano. Scusami, ma non ho capito se rispondi a me od ad Andrea. Voglio però spezzare una lancia in favore dei publican: è vero che c’è gente (moltissima!) tra loro che non sa né cos’è la spillatura né la temperatura d’esercizio relativa (incompetenti integrali). Altri cercano, o vorrebbero fare “educazione brassicola” ma si scontrano con costi d’acquisto folli (birre artigianali italiane vere) o gente che s’incazza di brutto se gli rifili una Rodembach o una geuze. Anche sta gente, però, quando alza la serranda deve coprire i costi e non è facile oggi. Ci vuole un’enorme pazienza e spesso la voglia gli passa, facendoli ripiegare a miti consigli (industriali). A me dispiace moltissimo, perché sono giovani pieni d’entusiasmo e fiducia quando iniziano: dopo sei mesi, quei sorrisi non li vedo più però.
Dura lex, sed lex.
Il problema è che non puoi sapere a priori chi hai davanti. Certamente la maggior parte delle volte ti ritroverai uno che rimarrà fedele alla Nastro Azzurro, ma questo non è sufficiente per smettere di “educare”. Dovrebbe essere la tua stessa passione a dirtelo.
Alessandro, io non mi riferivo ai publicans che non istruiscono il cliente, io mi riferivo ai birrai, che non istruiscono il publican, ma nemmeno fanno cultura birraria.
Basta vedere che in etichetta riportano chiara, bionda, rossa, senza tipologia, ecc. Quindi la cultua birraria bisognerebbe prima spiegarla ai birrai, poi ai publicans, e poi agli avventori intererssati.
I publicans si trovano a scegliere tra industriali che propagandano raccontando solo bugie ed artigiani, carissimi, che publicizzano fandonie.
Ora dimmi se un pubblican può prendersi l’onere di pagare e divulgare un prodotto, dicendo che è diverso da quello industriale, quando poi in etichetta trovi rossa?
Il tutto ad un prezzo di molto superiore e quindi con un ricarico ridotto e con il rischio di essere mandati a quel paese, dall’avventore di turno che legge un prezzo esorbitante.
Conosco il mestiere di publican visto che l’ho fatto per molti anni.
Andrea il problema non è solo a valle, ma inizia a monte. Come puoi pretendere di istruire la massa, quando i produttori stessi, primo non sono istruiti loro, tanto da non saper fare un’etichetta esplicativa e secondo ti fregano sul prezzo, perché quei soldi, quasi nessun prodotto li merita? Qui non è che manca la volontà, mancano proprio i mezzi.
A me sembra un po’ come nel settore del “cioccolato artigianale”. E’ una mia idea bizzarra ma chi produce anche le materie prime è ad un bel passo avanti e andrebbe ulteriormente valorizzato, purtroppo i costi per fare una cosa del genere sono alti ma almeno avrebbe una giustificazione più che valida sul prezzo finale! Come te sono dubbioso sulla parte della legge che riguarda microfiltrazione e pastorizzazione…
Perchè Hibu è considerato non artigianale? Dibevit non è un birrificio
Dibevit è una controllata di Heineken