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Per un approccio multi-stile alla definizione delle birre

Come riportato dal sempre puntuale Brewing Bad, recentemente l’americana Brewers Association ha rinnovato il suo documento sugli stili birrari, denominato Beer Style Guidelines. Se il nome non vi suona nuovo è perché è identico a quello ben più famoso stilato dal BJCP, che spesso viene considerato punto di riferimento in materia. In realtà entrambi i documenti nascono non come guida per gli stili birrari, ma come strumento per la definizione delle categorie nei concorsi a tema: quelli professionali nel primo caso, quelli di homebrewing nel secondo. Esistono differenze evidenti tra le due pubblicazioni, in primis negli stili effettivamente individuati. Ma anche nelle informazioni associate a ognuno di essi: mentre il BJCP entra nel dettaglio con una marea di dati e di (preziose) informazioni storiche e comparative, la Brewers Association rimane molto più in superficie. Ciò che mi preme analizzare, comunque, è l’utilità di simili documenti quando parliamo di birra, cioè fuori dalle situazioni per le quali sono stati creati.

Probabilmente l’intero discorso non ha molto senso: perché prendere un documento e considerarlo un riferimento per gli stili birrari, quando è “semplicemente” un elenco di categorie per i concorsi? Fondamentalmente perché non c’è molta distanza tra le due fattispecie, essendo le categorie dei concorsi molto spesso modellate sugli stili birrari. Entrambi gli approcci vanno a braccetto e seguono le evoluzioni del movimento internazionale della birra artigianale, modificandosi con il susseguirsi delle tendenze del momento. Una caratteristica che è apparsa evidente con l’ultimo aggiornamento delle Style Guidelines del BJCP, che non avviene esattamente ogni mese (la precedente release risaliva a 7 anni prima): sono stati aggiunti nuovi stili, come Black Ipa e White Ipa, mentre altri sono stati riesumati dalla storia della bevanda perché tornati d’attualità per tanti birrifici (Gose, Grodziskie, Lichtenahiner).

Se prendiamo l’ultima revisione del BJCP e quella più recente della Brewers Association, ciò che salta all’occhio è l’innumerevole moltiplicazione di stili: nel primo caso se ne contano quasi 120, nel secondo addirittura più di 150. Se in passato avete spulciato i due documenti, probabilmente vi sarà capitato di storcere la bocca di fronte ad alcune definizioni di stili un po’ – diciamo così – pretestuose. È giusto e opportuno identificare le Tripel o le Hefeweizen, ma ha davvero senso parlare di American-Style Oktoberfest o di Brown Ipa? Se è già stato designato un stile Wood-Aged Beer, è poi così indispensabile definire anche quello delle Specialty Wood-Aged Beer? Insomma, come abbiamo più volte ripetuto, con il passare degli anni questi documenti rischiano di risultare sempre meno utili a causa di una crescente parcellizzazione delle categorie, dovuta al tentativo di etichettare qualsiasi nuova tendenza in maniera univoca.

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E il problema forse è proprio quello: voler far rientrare ogni birra in una e una sola categoria. L’ambiente della birra craft viaggia a velocità inimmaginabili fino a un paio di decenni fa. Gli stili sono percepiti sempre meno spesso come modelli granitici da seguire pedissequamente, così come i birrai hanno sempre maggiore libertà per sperimentare e incuriosire i consumatori con prodotti inediti. La commistione di stili è all’ordine del giorno e spesso coinvolge ingredienti e tecniche che sembravano distanti anni luce. In altre parole ci ritroviamo con un numero crescente di birre che non sono facilmente riconducibili a uno stile ben preciso. Cosa fare allora? Le soluzioni sono due: ampliare a dismisura l’elenco degli stili birrari, con le pessime conseguenze che abbiamo visto, oppure cercare un’altra strada.

L’altra strada potrebbe essere, ad esempio, quella di non racchiudere una birra in una singola categoria. Prendiamo le Grapefruit Ipa o più in generale le American Ipa con l’aggiunta di frutta. In quale tipologia inserirle? Chiaramente non sono semplici American Ipa, perché pur mantenendo alcune caratteristiche fondamentali dello stile, vi si allontanano per il determinante contributo organolettico della frutta. Di contro non possono essere considerate generiche Fruit Beer, perché ne rappresentano un sottoinsieme con peculiarità tipiche di un altro stile ben preciso. Quindi in una situazione del genere l’unica soluzione sembra essere proprio la creazione di una nuova categoria dedicata, ma così facendo ci si espone al problema della parcellizzazione evidenziato poco sopra.

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Un’alternativa potrebbe essere quella di indicare una Grapefruit Ipa non con uno, ma con due nomi di stile: American Ipa e Fruit Beer allo stesso tempo. Questo approccio porterebbe tre vantaggi:

  1. Evitare la moltiplicazione degli stili: American Ipa e Fruit Beer già esistono come tali, non è necessario crearne un altro apposito.
  2. Riassumere in modo esaustivo le peculiarità della birra, grazie alla “somma” delle caratteristiche essenziali dei due stili.
  3. Evitare che la definizione dell’eventuale nuovo stile sia a sua volta insufficiente per determinate fattispecie. Prendiamo la Six Heaven di Eastside, che è un’American Ipa al cocco. Potrebbe rientrare in un ipotetico stile Grapefruit Ipa? Probabilmente no, perché il contributo del cocco è assai diverso da quello del pompelmo. Ma usando le altre due definizioni contemporaneamente, il problema non si pone.

Un altro vantaggio, più a lungo termine, è quello di non escludere una futura creazione dello stile Grapefruit Ipa nel momento in cui questa specialità acquisti una diffusione e una dignità tali da giustificarne una definizione ufficiale.

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Un altro problema dell’approccio tradizionale è di prevedere delle categorie “residuali” nelle quali includere le birre non direttamente associabili con tutti gli altri stili. Questa soluzione spesso non è in grado di comunicare la natura della birra in questione, perché non ne evidenzia le peculiarità. Prendiamo ad esempio la Rus di Croce di Malto, una Bitter sui generis realizzata con riso rosso del novarese. Per il BJCP rientrerebbe probabilmente tra le Alternative Grain Beer, una categoria molto vasta identificata – come è ovvio – da criteri assai labili. Ma da sola questa etichetta non basterebbe a descrivere in maniera esaustiva la Rus, obiettivo che invece si raggiungerebbe molto meglio se fosse identificata da due “descrittori”: Bitter e Alternative Grain.

Quante sono le birre che acquisterebbero dignità da un approccio del genere? Tantissime. Per restare in Italia basta citarne alcune. La Glaciale di Birra dell’Eremo, ad esempio, è una Double Ipa al miele: la definireste semplicemente Double Ipa o semplicemente Honey Beer? Evidentemente associandole entrambe le categorie il problema si risolve. La Cream Heli del Birrificio di Cagliari è plasmata sul modello delle Cream Ale, ma poi aromatizzata con elicriso. Come definirla se non usando due etichette contemporaneamente (Cream Ale e Spiced Beer)? La Space Frontier di Brewfist è un’Italian Grape Ale, ma a differenza di tante altre “colleghe” è costruita come un’India Pale Ale: perché rinunciare a esplicitare le caratteristiche di uno o dell’altro stile? E potremmo andare avanti per ore.

Chiaramente questo approccio multi-stile non si adatta ai concorsi birrari, che rappresentano il motivo per cui nascono i documenti a firma BJCP e Brewers Association: in quei casi le birre vanno iscritte in una sola categoria e poi valutate secondo i rispettivi criteri. Ma se dobbiamo identificare una birra e comunicarne le peculiarità con semplici etichette, allora non vedo alcun problema a usarne più di una. Senza abusarne chiaramente, perché una soluzione del genere ha senso solo in casi eccezionali. Ma in quei casi può rivelarsi un’alternativa davvero efficace.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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1 commento

  1. […] Per molti osservatori il 2021 è stato l’anno delle basse fermentazioni, ma cosa ci dicono i dati a tal proposito? In realtà scopriamo che hanno rappresentato poco meno del 16% di tutte le nuove birre italiane, una percentuale che di per sé ci dice poco e che dovrebbe essere comparata con quella degli anni precedenti – cosa che potremo fare solo in futuro. Tra le Lager lo stile più presente è quello delle Pils, dettaglio che non ci meraviglia affatto. A proposito di stili, quello più presente nelle oltre 311 novità del 2021 è incarnato dalle American IPA (40), una definizione che su Beer Zone usiamo anche per le West Coast IPA. Le New England IPA (o più generalmente le Hazy IPA) continuano a imperversare nel mercato (35), mentre le Double IPA (26) superano ampiamente le Session IPA (18). Insomma le luppolate sono ancora la tipologia più prodotta dai birrifici italiani, sebbene in questo elenco si notino due trend interessanti. Uno è rappresentato (35) dalle birre speziate (dalle Pastry Imperial Stout alle generiche birre con spezie), l’altro dalle birre affinate in legno (27). Anche le birre alla frutta si sono difese bene (22). Se i conti non vi tornano è perché su Beer Zone usiamo due riferimenti stilistici per birre a cavallo tra diverse filosofie produttive, come spiegato in un articolo di qualche anno fa. […]

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