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Falsi miti, equivoci e malintesi: in Italia birra e caffè condividono lo stesso destino

Nel luglio del 2021 fu pubblicato su Il Gusto, testata enogastronomica del gruppo Gedi (quello di Repubblica e La Stampa, per capirci), un articolo sul caffè a firma Massimiliano Tonelli. Il pezzo all’epoca fece molto rumore e ha tornato a farlo nelle scorse settimane, quando è stato rilanciato a distanza di circa un anno e mezzo da Francesco Costa su Morning, la rassegna stampa quotidiana de Il Post. Lo lessi allora e l’ho riletto nuovamente in questi giorni, apprezzando il modo diretto e chiaro con cui vengono smontati tanti falsi miti su una bevanda che molti in Italia assumono quotidianamente, ma che conoscono in maniera superficiale e spesso dannosa. E che nel suo essere fraintesa e penalizzata ricorda per molti versi la birra, tanto che mi è venuto naturale declinare alcuni passaggi dell’articolo al nostro mondo. In termini di comunicazione e aspettative la birra condivide molti aspetti con il caffè, da altri punti di vista invece si posiziona agli antipodi. L’idea allora è di analizzare le parti più interessanti del pezzo di Tonelli per capire quali similitudini e quali differenze esistono con il settore brassicolo italiano.

Il caffè e la birra sono probabilmente le due bevande quotidiane che in Italia sono maggiormente svilite. I motivi di partenza sono diversi, ma il punto di arrivo è lo stesso: parlare di qualità ai consumatori è difficile, perché sono stati abituati da decenni di prodotti industriali di bassa lega. La differenza è nel background culturale. Non solo il caffè è considerato un patrimonio italiano, ma siamo convinti – errore clamoroso – che da noi si beva il miglior caffè del mondo. Come se quella roba nera, bruciacchiata e talvolta rancida sia qualcosa di eccezionale, che non teme paragoni.  Nell’immaginario collettivo, invece, la birra è vista come una bevanda straniera, lontana dalle nostre abitudini alimentari e non degna certo dell’attenzione di cui gode il vino. Ciò paradossalmente ha rappresentato un vantaggio per lo sviluppo della birra artigianale, ma le aspettative dei consumatori nei confronti della bevanda sono parimenti influenzate da false credenze e superficialità, spesso alimentate ad arte dall’industria.

Siamo convinti che il colore del chicco di caffè sia nero, come quello che vediamo nelle campane trasparenti al bar, mentre la tostatura ottimale è marroncino tenue: è nero perché abbrustolendolo si eliminano tutti i difetti (e i pregi) appiattendo il sapore a quel caratteristico aroma di carbone. Tostando il caffè in quel modo i torrefattori sono così nelle condizioni di comprare partite di prodotto scadente, fallato, acerbo. Spuntando prezzi bassissimi e massimizzando i margini.

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Colore a parte, il discorso sulla tostatura eccessiva dei chicchi può ricordare quello dell’uso di surrogati del malto d’orzo, a cui le multinazionali brassicole fanno ampio ricorso per abbattere i costi di produzione. Impiegare riso e mais è molto più economico e per la legge italiana è consentito nella misura massima del 40% sulla base fermentescibile. Così molti credono che quel sapore di crusca e quella dolcezza oleosa siano caratteristiche imprescindibili di una birra, tanto da diventare auspicabili. Sono gli stessi che spesso ritengono che una birra di qualità, per quanto buona, tutto sommato non sia birra.

Siamo convinti che il caffè debba costare 0,80 centesimi, al massimo un euro. Se il prezzo sale gridiamo al furto e cambiamo bar. Non ci rendiamo conto che ogni caffè sottoprezzo (sotto i 2 euro è sempre sottoprezzo, non a caso in tutto il resto del mondo il corrispettivo quello è) genera sfruttamento, lavoro nero, sofferenza in tutta la filiera, dalla piantagione fino al bar. Al nostro bancone di fiducia una tazzina può venire via a pochi centesimi solo se dietro c’è un barista sottopagato, mai formato, assunto al nero, sfruttato. E così consideriamo inaccettabile spendere il giusto per un caffè, ma poi giriamo l’angolo e andiamo a manifestare a favore della sostenibilità e dei diritti…

In un’intervista di tanti anni fa, Evan Rail mi spiegò quanto è difficile imporsi sul mercato nazionale per i microbirrifici della Repubblica Ceca. Poiché la birra è una bevanda estremamente popolare – i cechi sono i più grandi bevitori al mondo – è disponibile sul mercato a prezzi irrisori. I consumatori si aspettano di pagare quel prezzo per un bene disponibile ovunque, quindi spiegare che una birra di alta qualità può costare tre o quattro volte di più è quasi impossibile. Esattamente ciò che accade in Italia con il caffè, che tra l’altro è molto peggiore della bira che si beve in Repubblica Ceca. La birra artigianale è riuscita a farsi strada anche grazie alla mancanza di abitudini di acquisto radicate nella popolazione, eppure ancora si fatica a far passare il messaggio che una bottiglia di un microbirrificio non può costare quanto una 66 cl di Peroni.

In Italia abbiamo la certezza che la tazzina di caffè abbia quel sapore lì. Proprio quello lì: di carbone. Non è così: il sapore del caffè è altra cosa. Alle volte si avvicina ad una densa spremuta di frutti rossi, a volte al sentore pungente degli agrumi, talvolta addirittura ai profumi fermentati del vino o certe tipologie intense di the. Quella bevanda che abbiamo banalizzato e trasformato in una sorta di medicina da trangugiare velocemente in piedi, non è più caffè: è una estrazione di chicchi bruciati, carbonizzati da un trattamento dozzinale.

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Qui torniamo sul discorso intavolato poco sopra, con l’aggiunta che l’estrema variabilità di gusto del “vero” caffè ricorda da vicino le mille caratteristiche organolettiche dei tanti stili birrari che compongono la cultura internazionale della nostra bevanda.

La prima resistenza viene però dalla clientela che negli anni (il rito del caffè espresso al bar è relativamente recente) si è assuefatta. Tuttavia altre merceologie ci raccontano che atteggiamenti conservatori in ambiti che sembravano immutabili possono modificarsi rapidamente. E’ avvenuto col vino a partire dagli anni Ottanta, poi con la birra e il boom delle artigianali, infine col pane da un lustro a questa parte. Anche l’olio ci sta provando così come l’aceto. E pensate alla pizza: fino a vent’anni fa una pizza era una pizza, ora sappiamo vita morte e miracoli del lievito e ogni dettaglio sul mugnaio che si è occupato della farina… Tutti prodotti che erano banalizzati all’inverosimile e che sono in via di rinascita all’insegna di una nuova consapevolezza e attenzione da parte di chi produce, compra, consuma.

Fa un certo effetto trovare la birra artigianale nell’elenco delle merceologie che ce l’hanno fatta, che sono riuscite a liberarsi dalle pessime abitudini di consumo per elevarsi verso la qualità. Nel mondo enogastronomico il fenomeno è probabilmente visto in questo modo, ma sappiamo che tale consapevolezza non copre che una percentuale irrisoria di mercato. E sappiamo anche che i consumatori sarebbero disposti a pagare un po’ di più per bere una birra migliore. Quindi probabilmente siamo sempre lì, all’incapacità da parte del movimento di sfruttare una dote concretizzatasi negli anni, ma rimasta solo potenziale a causa di vari errori.

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L’articolo poi prosegue intervistando diversi protagonisti dello Specialty Coffee in Italia, a cui è stato chiesto in quale modo il caffè può uscire da questo eterno malinteso. Tra le risposte più interessanti si segnala quella di Andrej Godina, che ricorda la situazione di molti pub italiani:

Uno dei motivi per cui il settore è rimasto indietro è che le torrefazioni ad un certo punto, tra prestiti e comodati d’uso di macchinari, sono diventate delle società finanziarie che guadagnano più dagli interessi che dal prodotto. E dunque il prodotto conta meno: conta solo il margine di guadagno. Il caffè è una pura commodity. Incredibile anche l’omogeneità del prezzo della tazza. Miscele scarse e caffè di buona qualità 100% arabica alla fine costano pressoché la stessa cifra. Sarebbe possibile nel vino avere calici tutti a prezzo omologato indipendentemente dalla provenienza? Il prezzo della tazzina va diffrenziato, questo servirà a comunicare al consumatore che esistono delle articolazioni, che esistono alcuni caffè che sono specialties e altri che non lo sono e costano meno.

Se prescindiamo da quelle poche centinaia di locali specializzati sulla birra di qualità, anche la risposta di Gianni Tratzi si adatta facilmente al nostro mondo:

Il barista – mestiere relativamente giovane – è purtroppo ancora un mero macchinista. E’ addestrato esclusivamente ad essere veloce e a ripetere meccanismi, non è invece formato sul prodotto e questo ha delle conseguenze: vedendo comportamenti automatici, privi di narrazione, i consumatori considerano il caffè come qualcosa di poco importante, una cosa da buttar giù senza darci peso. Non hai una soglia d’attenzione adeguata quando bevi un caffè come invece hai quando bevi un vino.

Infine anche per il caffè di qualità la ristorazione è un punto dolente, come spiega il torrefattore Massimo Bonini:

C’è stata un’evoluzione incredibile negli ultimi 15 anni, dunque sono ottimista. Ora secondo me ci vuole una svolta e sono convinto che sia legata al mondo della ristorazione. I ristoranti sono gli unici che posso farci fare un salto in avanti. Un esempio? Non faccio nomi, ma cinque dei sette ristoranti con Tre Stelle in Italia utilizzano caffè mediocre. Ma se non sono loro ad adeguare il livello del caffè al resto dell’offerta quando mai saremo credibili a parlare di caffè di ricerca? Ci vuole integrità: se tu vieni da me in torrefazione e prima del caffè ti offro un bicchiere di vino, te lo offro di una qualità paragonabile ai miei caffè. Basterebbe che i ristoratori – tutti i ristoratori – curassero il caffè come curano la ricerca delle loro materie prime e l’olio, il pane o ancora di più il vino per determinare un cambiamento radicale e rapido.

In conclusione la situazione della birra in Italia non è così dissimile da quella del caffè, che sconta addirittura resistenze culturali più pesanti. La mia impressione – e attenzione, è l’impressione di un assoluto profano sull’argomento – è però che il caffè abbia molte risorse in più su cui puntare per il futuro, non necessariamente riconducibili a disponibilità economiche. Forse il caffè di qualità sarà in grado di sfruttare il momento propizio per creare qualcosa di importante e duraturo nel tempo. Un’operazione che la birra artigianale non è mai riuscita a compiere in maniera completa, almeno fino a oggi.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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