Cimec

Bianco, nero, rosso, marrone: quando la birra richiama i colori

Una delle prime regole che si apprendono quando ci si avvicina al nostro mondo è che la birra al pub non va ordinata per colore. “Vorrei una chiara” o “Dammi una rossa” sono espressioni che non hanno senso, perché le caratteristiche cromatiche non forniscono indicazioni precise su ciò che troveremo nel bicchiere. Ad esempio una “chiara” potrebbe essere benissimo una leggera e delicata Pils, una potente e complessa Tripel, un’amarissima Double IPA o ancora una Bock dal profilo maltato. Ciononostante nei nomi di molti stili birrari compaiono riferimenti al colore, perché pur non entrando in gioco nel momento della bevuta (se non influenzando indirettamente la stessa), la vista rimane un senso fondamentale per affibbiare etichette e categorie. Sfogliando le linee guida del BJCP (qui in pdf) incontriamo tantissime tipologie che nel nome incorporano aggettivi come “chiaro”, “scuro”, “pallido” e “ambrato”, arrivando in alcuni casi a specificare addirittura un colore preciso. È proprio di quest’ultime fattispecie che ci occupiamo oggi.

Bianco

Quando nel mondo della birra ci si imbatte nel colore “bianco”, si può avere la ragionevole certezza di essere al cospetto di una produzione di frumento. Il caso più celebre è rappresentato dalle Weiss (“bianco” in tedesco), un grande classico della cultura brassicola teutonica: birre prodotte con grano maltato, contraddistinte da note di banana matura e chiodi di garofano. Troviamo lo stesso termine anche nello stile delle Berliner Weisse, antica specialità di Berlino che, pur prevedendo una percentuale di malto di frumento, è conosciuta per ben altre caratteristiche: un tenore alcolico molto contenuto e soprattutto una leggera acidità di tipo lattico. Il BJCP menziona anche le Dunkles Weissbier (letteralmente “birre chiare scure”), ma per evitare ossimori poco comprensibili personalmente preferisco usare l’altro nome e cioè Dunkelweizen (“birre di grano scure”).

Anche nel patrimonio brassicolo del Belgio troviamo un diretto riferimento al colore bianco. Sto chiaramente parlando delle Blanche (“bianco” in francese), che al contrario delle cugine tedesche prevedono l’impiego di frumento non maltato. Ma le differenze non si fermano qui, perché le Blanche sono anche birre spiccatamente aromatizzate, grazie all’aggiunta di scorza d’arancia amara e coriandolo. Infine vanno citate le White IPA, variazione americana dello stile più famoso in assoluto, nel quale il ricorso al frumento serve per aggiungere freschezza e una delicata acidità – talvolta queste birre, inoltre, sono aromatizzate come le Blanche.

Tutte queste tipologie chiaramente non appaiono di colore bianco, quindi è naturale chiedersi il perché di tale riferimento cromatico. La risposta è nell’uso stesso del frumento, che spesso conferisce un aspetto vagamente lattiginoso, oltre che nel colore stesso, decisamente chiaro.

Nero

Il colore nero non è certo una rarità nel mondo della birra e l’esempio più celebre è rappresentato dalla Guinness. Tuttavia sia le Stout che le antenate Porter – cioè i due stili scuri per eccellenza della tradizione anglosassone – non riportano nel nome alcun riferimento cromatico. Il discorso cambia se spostiamo lo sguardo alla cultura brassicola della Germania, dove troviamo le meno famose Schwarz (“nero” in tedesco), basse fermentazioni in cui i malti scuri caratterizzano il profilo aromatico, ma senza raggiungere l’intensità delle cugine britanniche.

Dobbiamo attraversare l’Atlantico per trovare un’altra tipologia che fa esplicito riferimento al colore nero e anche in questo caso si tratta di una variazione sul tema delle (American) IPA. Le Black IPA sono un fenomeno nato in tempi abbastanza recenti, che si pongono il difficile obiettivo di far convivere la potenza aromatica dei luppoli americani e la spiccata componente amara dello stile con le note tostate dei malti scuri. Un connubio che può facilmente portare a risultati agghiaccianti, motivo per cui le Black IPA richiedono che i malti speciali contribuiscano solo in minima parte alla formazione del profilo organolettico, limitandone gli effetti quasi esclusivamente a livello visivo.

Rosso

Nelle note di degustazione di una birra difficilmente si trovano allusioni dirette al colore rosso, a differenza invece del più vago “ambrato” che permette di ampliare il raggio cromatico di riferimento. Una simile soluzione è adottata per i nomi di molti stili birrari, eppure non mancano in tutte le maggiori culture brassicole delle tipologie che incorporano senza mezzi termini il colore rosso. In Belgio, ad esempio, vanno menzionate le Flemish Red Ale, antico stile delle Fiandre occidentali che si contraddistingue per una spiccata acidità, note di frutta rossa e sfumature vinose.

Nella cultura brassicola del Regno Unito spiccano le Irish Red Ale, tipologia propria della scuola irlandese nata come adattamento delle Bitter inglesi. Rispetto a queste ultime le “rosse d’Irlanda” sono meno amare e con un carattere leggermente tostato sul finale. Le linee guida rimangono comunque piuttosto vaghe, anche perché la loro rivisitazione in tempi moderni ne ha cambiato i connotati. Sono invece tipiche di Norimberga, in Germania, le Rotbier (letteralmente “birre rosse”) che rappresentano una specialità poco conosciuta, considerata l’anello di congiunzione tra le Vienna e le Dunkel. In particolare rispetto a quest’ultime le Rotbier sono più spostate sulla componente dolce del caramello.

Infine nelle Style Guidelines del BJCP troviamo il sottostile delle Red IPA, uno dei frutti della discutibile parcellizzazione dello stile IPA effettuato nell’ultima release del documento. Possono essere considerate una via di mezzo tra le American IPA e le American Amber Ale: hanno un profilo maltato più evidente rispetto alle prime, ma senza sfociare in una dolcezza eccessiva o in un corpo pesante.

Marrone

E finiamo infine col colore marrone, il cui riferimento esplicito è proprio di alcuni stili di stampo anglo-americano. In particolare il Regno Unito vanta una lunga tradizione di birre “marroni”, le cui caratteristiche sono cambiate nel tempo e reinterpretate in tempi recenti dai birrai locali. Non è un caso che il BJCP abbia previsto due tipologie appartenenti a questa famiglia: London Brown Ale e British Brown Ale. Le prime sono l’incarnazione storica dello stile, birre molto leggere, dolci e poco attenuate con un profilo maltato di caramello e toffee. Le seconde sono l’interpretazione che ne ha fatto la rivoluzione moderna della birra craft: creazioni molto diverse tra loro ma in genere abbastanza forti, dalla discreta complessità maltata e senza le note tostate delle Porter.

Negli Stati Uniti troviamo due tipologie appartenenti a questo raggruppamento cromatico. Le American Brown Ale sono l’adattamento delle cugine britanniche ai gusti americani: più alcoliche, più complesse, più amare e con un maggiore contributo aromatico dei luppoli. Lo scalino successivo è rappresentato dalle Brown IPA, dove le caratteristiche tipiche delle American IPA si accompagnano a note di cioccolato, caramello e talvolta frutti scuri. Come per le Red IPA, anche qui non bisogna sacrificare la bevibilità, mantenendo secchezza nel finale ed evitando di appesantire il corpo.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

Leggi anche

Le mille sorprese della Guinness: uno studio svela i segreti del suo lievito

Se leggete regolarmente Cronache di Birra, sarete sicuramente incappati in uno degli articoli sull’homebrewing scritti …

Luppoli nuovi e nuovissimi: la rivoluzione del Nectaron, lo sperimentale CF302

Il luppolo ha rappresentato l’ingrediente della prima grande rivoluzione della birra artigianale, tanto da spingere …

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *