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Cosa sono le IPA? Uno stile di birra ormai privo di punti fermi (a parte uno)

Al giorno d’oggi quando qualcuno entra in un pub chiedendo una IPA, sicuramente sta pensando a caratteristiche ben precise: è verosimile che si aspetti una birra chiara o ambrata, di medio tenore alcolico, molto aromatica e discretamente amara. Funziona così con tutti gli stili, perché ogni tipologia brassicola presenta specifiche peculiarità che sono ciò che ci interessa ritrovare nel bicchiere. Chiaramente possono esserci variazioni sul tema, leggere discrepanze nei confronti del modello di riferimento o personalizzazioni da parte del birraio di turno. Però quando ordiniamo una Stout, una Pils o una Blanche sappiamo che, nonostante le possibili varianti, ci saranno dei punti fermi imprescindibili che definiscono lo stile in quanto tale. Questa ragionevole regola non vale per le IPA, che rappresentano una tipologia di tale successo da essere evoluta e cambiata negli anni, tanto da rendere difficile rispondere a una domanda solo apparentemente banale: “Cos’è una IPA?”.

Il significato di IPA lo conosciamo (più o meno) tutti: è l’acronimo di India Pale Ale, birre nate in Regno Unito nel XVIII secolo e riscoperte dai birrifici statunitensi in tempi relativamente recenti. In questa sede non ci interessa ripercorrere l’origine dello stile, né analizzare le differenze che esistono tra le autentiche IPA britanniche e la loro reinterpretazione americana, bensì capire come le versioni moderne dello stile sono mutate in pochi anni, seguendo e talvolta dettando i gusti del mercato. Un costante processo di evoluzione e ridefinizione, che ha toccato tutti gli elementi della tipologia (colore, aroma, gusto, metodi produttivi) fino a intaccare qualsiasi convinzione nei loro confronti.

Le prime American IPA che apparvero negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 erano birre leggermente ambrate, abbastanza forti (6-7% alc.), secche e piuttosto amare per gli standard dell’epoca. Il luppolo protagonista in quel periodo fu senza dubbio il Cascade, capace di imprimere a livello aromatico distintive note di agrumi e resina. L’amaro deciso divenne uno dei caratteri più distintivi dello stile e negli anni successivi molti birrifici spinsero questo aspetto all’estremo, sfruttandolo anche in termini di marketing. In breve cominciarono a comparire vari sottostili (come le Double IPA, datate 1994) mentre il filone originario, sempre più associato alla California e alle zone limitrofe, virò verso una maggiore bevibilità, con basi maltate più leggere (e un colore più chiaro) e una netta secchezza. Quella filosofia produttiva cominciò a essere identificata con l’appellativo West Coast IPA.

Volendo cercare costanti immodificabili nelle diverse interpretazioni di IPA, possiamo allora affermare che queste birre sono sempre amare e secche? Assolutamente no, a meno di non voler negare tutta la corrente della East Coast. Dall’altra parte degli Stati Uniti, infatti, si è sviluppata una variante di IPA che per molti versi nega le certezze fornite dal filone della West Coast. Le New England IPA – anche se sarebbe più corretto parlare vagamente di Hazy IPA o Juicy IPA – sono birre tendenzialmente dolci, dall’aspetto assai velato e morbide in bocca, con una chiusura tutt’altro che secca. Anche in termini aromatici sono abbastanza distanti dal profilo delle cugine della costa occidentale, perché il loro profilo è spesso dominato da note di frutta tropicale, accompagnata dalle immancabili sfumature agrumate e talvolta resinose.

Già queste due filosofie produttive, che per diversi aspetti sono agli antipodi, rendono complicato trovare punti di contatto per una generica definizione di IPA. Ma i tanti sottostili che sono comparsi negli anni complicano ulteriormente la situazione. Abbiamo certezze circa gli ingredienti utilizzati per produrre una IPA? Certamente no, perché non è raro l’impiego di cereali alternativi al malto d’orzo (avena, frumento, segale), per non parlare delle varianti con adjuncts (lattosio, frutta, vaniglia, ecc.). Possiamo affermare che le IPA sono birre di colore chiaro o al massimo ambrato? No, perché le Black IPA (e le Brown IPA) negano questa considerazione apparentemente banale. Almeno la gradazione alcolica è un punto fermo dello stile? Neanche per sogno, basti pensare agli estremi rappresentati dalle Session IPA e dalle Triple IPA. Con l’avvento delle Cold IPA, che utilizzano lieviti a bassa fermentazione, abbiamo perso anche la certezza sul tipo di fermentazione di queste birre.

Allora cos’è che rende tale una IPA di fronte a tutti questi elementi di variabilità? La risposta è il luppolo, inteso principalmente a livello aromatico – abbiamo visto che l’amaro in certe interpretazioni può essere molto contenuto. Oggi quando troviamo quelle tre lettere, I-P-A, abbiamo una sola certezza: che il luppolo, di varietà moderne, sarà protagonista in termini di profumi e aromi. Sul resto (colore, sapore, sensazioni tattili, metodi produttivi, ingredienti) non possiamo essere sicuri di niente. Questa considerazione è da un lato molto affascinante, dall’altra senza dubbio disorientante. Testimonia come la “democrazia della birra”, che permette a ognuno di reinventare uno stile brassicolo, è sia un punto di forza che un limite della nostra bevanda. Per questo oggi è difficile rispondere alla domanda “Cos’è una IPA?” senza rischiare di essere superficiali. Pur sapendo che l’avventore medio, quando la chiede al bancone, ha in mente una birra con precise caratteristiche.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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