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Birre ad alto tasso alcolico: la vera sfida per l’homebrewer

Capita che una sera si torni a casa stanchi dopo una giornata di lavoro, con l’umore storto e poca voglia di sorridere. Magari fuori piove, da giorni; fa freddo e uscire non è un’opzione praticabile. Uno sguardo al divano, con i suoi cuscini morbidi, avvolgenti, un altro alla vetrina con i bicchieri, dove svettano i baloon dalla forma arrotondata e suadente. E il pensiero corre subito a quella bottiglia di Barley Wine che abbiamo prodotto in casa l’anno precedente, in una giornata di cotta indimenticabile: una corsa a ostacoli che ci ha tenuto impegnati per diverse ore, facendoci sudare le classiche sette camicie. Sarà pronto da bere? A che punto sarà arrivata la maturazione? Prendiamo la bottiglia, stappiamo, riempiamo il bicchiere e ci sediamo sul divano. Vorremmo avere davanti qualcuno per raccontargli quanto sia difficile produrre una birra del genere, e magari dargli qualche dritta per evitare disastri. Proviamoci, mentre assaporiamo la nostra creazione attraverso un lungo, intenso e appagante sorso.

Produrre mosti ad alta densità

Per produrre birre ad alto tasso alcolico si parte da un mosto ricco di zuccheri da dare in pasto al lievito per la fermentazione. Il tasso alcolico finale della birra è infatti proporzionale alla quantità di zuccheri iniziali presenti nel mosto. Produrre un mosto ad alta densità con i sistemi casalinghi è una vera sfida: le strade percorribili sono diverse, ciascuna con pro e contro.

Aumentare la dose di malto

È la strada più ovvia, però complica le operazioni di produzione. Usare più malto significa produrre più zuccheri già nella fase di ammostamento. Questo rende il mosto denso, ostacolando la solubilizzazione degli zuccheri man mano che la loro concentrazione aumenta. Anche gli enzimi che convertono l’amido del malto in zuccheri lavorano con più difficoltà.. Questo si traduce in tempi di ammostamento verosimilmente più lunghi, e probabile calo dell’efficienza di estrazione degli zuccheri dai malti. Anche la fase di filtraggio diventa un percorso a ostacoli: il mosto è appiccicoso, fluisce male attraverso il letto di trebbie, rendendo difficile il lavaggio dei grani e il recupero degli zuccheri residui. L’efficienza del sistema diminuisce ancora.

Con le soluzioni semplificate, come il BIAB (Brew In A Bag) o con i sistemi all-in-one, la gestione di mosti ad alta densità diventa ancora più difficile, perché senza un buon risciacquo delle trebbie l’efficienza del sistema si abbassa ulteriormente. C’è chi riesce lo stesso a produrre birre molto alcoliche 100% malto con questi sistemi semplificati, ma non è impresa semplice. In generale, anche con il sistema classico a tre tini, dovremo mettere in conto una riduzione dell’efficienza e operare con pazienza: non aver fretta di filtrare o velocizzare i vari passaggi.

Alcuni praticano il cosiddetto “ammostamento reiterato”, ovvero due ammostamenti in successione: il primo con acqua e metà dei malti in ricetta, il secondo con il mosto prodotto dal primo ammostamento e l’altra metà dei malti in ricetta. Questo aiuta a gestire le operazioni grazie ai ridotti volumi dei due ammostamenti e al recupero di efficienza del primo ammostamento che di fatto si trova in condizioni standard con mosto non molto denso.

Aggiungere zuccheri semplici a fine bollitura

Questa operazione permette di gestire il processo di ammostamento e filtrazione con un mosto a densità media, per poi dare il “boost” di densità a fine bollitura: semplicemente si scioglie zucchero nel mosto caldo e la densità aumenta. Ma non dimentichiamoci che lo zucchero va ben gestito e dosato: essendo completamente fermentabile dal lievito, lascerà meno corpo e struttura nella birra a fine fermentazione. Questo, nel caso in cui la quantità di zuccheri aggiunta sia significativa, snellisce molto il finale della birra producendo un’impressione di secchezza.

È quello che si fa nelle Tripel o nelle Strong Golden Ale, che partono in genere da una ricetta con malti chiari per produrre un mosto a densità non altissima, per poi aggiungere a fine bollitura zuccheri chiari che danno poco contributo in termini aromatici ma aiutano molto a snellire il corpo della birra. Si arriva facilmente al 20% in peso dello zucchero su tutta la ricetta. Una Tripel da 9% ABV può partire da densità del mosto piuttosto modeste e facilmente gestibili in ammostamento, per poi salire a fine bollitura dopo l’aggiunta di zucchero. Discorso simile per una Double IPA, ad esempio, dove si può usare una discreta quantità di zucchero semplice in ricetta per alzare l’ABV senza appesantire il corpo della birra (in questo caso in genere ci si assesta più sul 10-15% massimo). Per Barley Wine, Imperial Stout o Belgian Dark Strong Ale si scelgono zuccheri particolari come moscovado, sciroppi di zucchero scuri, o anche molasse (meno fermentabili) e vincotto, in grado di caratterizzare la birra rendendo nel contempo più gestibile la fase di ammostamento.

Aggiungere estratto di malto a fine bollitura

E infine l’ultima strada, quella che molti additano come la scelta dei “furbetti”: aggiungere estratto di malto a fine bollitura. Per qualcuno è un po’ come chiamare l’aiutino da casa, ma non c’è nulla di sconvolgente. In birre con una certa complessità maltata (ad esempio Barley Wine o Imperial Stout), i malti base non danno un contributo enorme al profilo organolettico, che gioca maggiormente sulle note da invecchiamento e caramellizzazione (Barley Wine) o sull’interazione tra i tanti mali scuri usati in ricetta (Imperial Stout). In questi casi un aiutino (diciamo fino al 20% in peso) di estratto di malto semplifica di molto la vita senza compromettere il risultato finale. Aumenta il costo della ricetta perché l’estratto costa più del malto, ma per i volumi casalinghi questo non è un grande problema. Non aggiungerei invece estratto in birre molto chiare come Tripel o Belgian Golden Strong Ale: in questo caso il contributo dell’estratto si potrebbe notare sulla base maltata molto delicata.

La gestione della fermentazione

La fermentazione di un mosto ad alta concentrazione di zuccheri è un’impresa ardua e impegnativa. È di fondamentale importanza non lesinare su nulla: quantità di lievito inoculato, ossigenazione del mosto, nutrienti, temperatura di fermentazione, tempi di permanenza nel fermentatore. Ogni parametro controllabile merita la massima attenzione. Ricordiamoci sempre che le birre ad alto tasso alcolico impiegano mesi, spesso anche anni, per raggiungere il picco di maturazione: qualsiasi errore nelle fasi iniziali lo pagheremo caro in futuro, vale la pena impegnarsi al massimo per evitare cocenti delusioni.

Non lesinare sulle quantità di lievito

Per mettere il lievito nelle condizioni di consumare con agilità tutti quegli zuccheri e trasformarli in alcol, anidride carbonica e composti aromatici, è fondamentale inoculare nel mosto la giusta quantità di lievito. Se si usano lieviti liquidi, il consiglio è di fermentare prima una birra a bassa/media densità, per poi usare il residuo di lievito per fermentare un secondo mosto ad alta concentrazione di zuccheri. Non serve fare chissà cosa per recuperare il lievito, specialmente se si fermenta prima una birra con pochissimo luppolo (possibilmente senza dry hopping): a fine imbottigliamento si prende un cucchiaio sanitizzato e si pesca il lievito dal fondo del fermentatore, lo si passa in un barattolo anch’esso sanitizzato e si chiude. Va tenuto in frigo e usato il prima possibile, concatenando le due cotte a non più di una settimana di distanza.

Quanto lievito recuperato usare? Difficile dirlo con esattezza senza contare le cellule al microscopio; tuttavia si può usare la vecchia indicazione spannometrica che ci dice che ogni millilitro di slurry (lievito recuperato) contiene circa un miliardo di cellule. Per un mosto ad alta densità zuccherina bisogna inoculare circa 1,25 miliardi di cellule per ogni 4 punti di densità e per ogni litro di mosto. Esempio: per 20 litri di mosto con densità 1,100 servono 1,25 x 100/ 4 x 20 = 625 miliardi di cellule di lievito. Se non si riesce a recuperare il lievito da una fermentazione precedente, meglio usare lievito secco piuttosto che mettersi a fare starter giganti. Quante bustine? Contando che ogni bustina da 11g di lievito secco contiene più o meno 80-100 miliardi di cellule, ne servono 6 per 20 litri di mosto con densità 1,100. SEI, avete letto bene. Occhio.

Ossigenazione del mosto

Importante, direi importantissima se si utilizza lievito liquido. I lieviti secchi hanno meno bisogno di ossigeno a inizio fermentazione, ma serve comunque. Il problema del mosto con alta densità è che l’ossigeno fa molta più fatica a entrare in soluzione. Se spalettate, ovvero cercate di solubilizzare ossigeno nel mosto dall’aria tramite paletta (tipo quando si monta a neve la chiara dell’uovo), dovete prolungare i tempi. O farlo in più riprese. Tre spalettamenti da un minuto, ma anche quattro, a distanza di qualche minuto l’uno dall’altro. Con ossigeno diretto da bombola è più semplice, anche perché si riescono a solubilizzare quantità maggiori, oltre il limite di saturazione. Ovviamente il surplus di ossigeno tenderà lentamente a uscire dal mosto, ma nel frattempo il lievito sarà riuscito ad assorbirne una buona parte. L’ossigeno è necessario al fine di garantire che le pareti delle cellule di lievito svolgano a dovere il proprio importantissimo ruolo. Una buona ossigenazione produce cellule in salute e una fermentazione completa, senza intoppi e senza rilasci di sostanze indesiderate nel mosto.

Nutrienti

Il lievito per portare avanti una buona fermentazione ha bisogni di nutrienti. Ossigeno, lo abbiamo detto, ma anche i cosiddetti FAN, ossia composti azotati, lipidi, acidi grassi e altro. In genere non serve aggiungere nutrienti quando si producono birre 100% malto perché ce ne sono già a sufficienza nel malto stesso. In caso di aggiunte di quantità significative di zuccheri (oltre il 10-15%), è bene aggiungere nutrienti per il lievito appena spenta la fiamma della bollitura, visto che lo zucchero non contribuisce con nessun tipo di nutriente. I siti di homebrewing vendono piccole confezioni di nutrienti a poco prezzo, facili da usare.

Temperatura e tempi di fermentazione

Con l’aumentare della concentrazione degli zuccheri nel mosto il lievito tende a diventare “esuberante”, incrementando la dose di composti aromatici rilasciati nel mosto durante la fermentazione. Su tutti, gli alcoli superiori, che danno una sensazione di bruciore in gola. Ma non solo. Uno strumento indispensabile per tenere a bada il lievito durante la fermentazione è il controllo della temperatura, in particolare nei primi 2-3 giorni di fermentazione, quando viene prodotta la maggior parte di questi composti. Non è chiaramente necessario fermentare a temperature polari (parliamo sempre di alte fermentazioni), ma è importante evitare che la temperatura del mosto salga troppo. Indispensabili un frigorifero e un controller di temperatura, o una cantina con temperatura ambiente stabile non superiore ai 16-17°C (con una fermentazione esuberante la temperatura effettiva del mosto può essere anche 3-4°C superiore a quella esterna).

Dopo 4-5 giorni si può alzare la temperatura di due/tre gradi (gradualmente), per stimolare il lievito a consumare gli ultimi zuccheri residui. Dategli il giusto tempo, raramente minore di 3-4 settimane. Fino a 5 settimane non è indispensabile travasare, ma se volete far maturare la birra nel fermentatore per lungo tempo, il travaso è consigliato. In alternativa, si può tranquillamente lasciar maturare in bottiglia.

La rifermentazione in bottiglia

Generalmente le birre ad alto tasso alcolico vengono fatte rifermentare in bottiglia, ma anche questo aspetto non è sempre gestibile con le pratiche ordinarie. Questo perché la fermentazione e la probabile lunga permanenza nel fermentatore potrebbero rendere il lievito debole. Questo rallenterebbe il processo di carbonazione. A volte il lievito proprio non ce la fa, e la birra rimane piatta. Il modo più semplice e immediato per ovviare a questo problema è aggiungere lievito in ogni bottiglia. Di solito si usano lieviti appositi per questo scopo (F2 della Fermentis o CBC della Lallemand), avendo cura di reidratarli prima in acqua una quindicina di minuti per poi iniettarli in ogni bottiglia con una piccola siringa senza ago. Il dosaggio consigliato è di circa 0,03 g/L.

La lunga attesa

Qui tocchiamo una corda molto sensibile per i produttori casalinghi: l’impaziente attesa. Servono mesi, a volte anche anni, per ottenere il meglio da una birra ad alto tasso alcolico. La maturazione è un processo che non si può accelerare in nessun modo, l’unico strumento che abbiamo è aspettare. Durante la maturazione avvengono diversi fenomeni che migliorano il profilo organolettico della birra: gli alcoli si ammorbidiscono, si riduce il pizzicore in gola trasformandosi in piacevole tenore etilico; alcuni esteri fruttati si affievoliscono, aprendo il profilo aromatico; si formano aldeidi profumate, con aromi riconducibili ai vini fortificati come madera e sherry; il profilo maltato si arrotonda; la birra tende a illimpidirsi e a scurirsi leggermente.

Con la maturazione possono però apparire anche difetti, secondo tempistiche non prevedibili con certezza a priori. I più comuni sono l’aroma di cartone bagnato e l’autolisi (rottura) della cellule di lievito che porta aromi di soia e brodo di carne. Capita anche che a un certo punto il profilo organolettico si sbilanci: si riduce la robustezza maltata, l’amaro si affievolisce troppo, si perde parte della carica aromatica. Difficile prevedere quando questo accadrà, ma è inevitabile e difficilmente controllabile. L’approccio migliore è tenere le bottiglie a una temperatura di cantina (15°C): il freddo rallenta la maturazione “positiva” ma al tempo stesso anche l’emergere dei difetti. Tenerle a temperatura più bassa rallenterebbe troppo l’evoluzione della birra; sopra i 25°C si rischierebbe di accelerare la comparsa dei difetti. Ogni tanto si stappa una bottiglia e se ne valuta l’evoluzione, imparando la sacra arte dell’attesa. Non commettete l’errore – comune – di pensare che più una birra invecchi, più sia buona. Tutte le birre a un certo punto oltrepassano il picco organolettico: che questo avvenga dopo tre mesi, due anni o due decadi non lo possiamo sapere con certezza. Assaggiando si impara. Aspettando si cresce.

L'autore: Francesco Antonelli

Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. Da febbraio 2014 è Degustatore Professionista dell'Associazione Degustatori di Birra.

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