Quanti film, proverbi, quanti modi di dire legati al pane. Un cibo storicamente essenziale per le popolazioni meno abbienti e che ha una vera e propria affinità con la birra, essendo, di fatto, una differente declinazione della stessa, versatilissima materia prima: i cereali. Se le birre oggi conoscono un rinnovato interesse culturale (e commerciale), per il pane purtroppo non si può dire altrettanto: la miseria e la tristezza delle decine di interpretazioni industriali che occupano la schiacciante maggioranza delle tavole tricolori è tutto dire e quella passione matta di panificare che fu legata alla reclusione da COVID è oggi memoria lontana. Fatto sta però che il pane genera varianti infinite e nella (ampia) accezione di panino è e rimane il re del pranzo veloce, della fretta e della necessità di mangiare anche in situazioni non confortevoli: un concetto semplice e vecchio come l’umanità. Al panino, alla sua infinita possibilità di condimenti non c’è limite, se non quello della nostra fantasia, abbiamo voluto dedicare una puntata di questa rubrica.
Dunque, siete dotati di bicchiere? E di canovaccio? Vi avvisiamo, Cronache di Birra non paga la lavanderia.
Tigella con stracchino e prosciutto crudo
Cominciamo dall’Emilia, con l’opportuna attenzione al non infilarsi nelle questioni semantiche: in un Paese come il nostro, fatto di dialetti e di continue sfumature geografiche e culturali, potrebbe essere persino pericoloso. Tigella è il nome commerciale più diffuso per indicare un piccolo panino/focaccina, tondo e basso, nel cui impasto è peculiare la presenza dello strutto: a Modena lo stesso cibo è chiamato crescentina (ma quella fritta, detta anche gnocco, è un’altra cosa ancora). Tagliandolo nel mezzo ci si può adagiare qualsivoglia condimento: noi, anche per un tributo al territorio di provenienza, abbiamo puntato su stracchino e prosciutto crudo.
Per l’abbinamento abbiamo scelto una Kölsch. Normalmente, quando abbiamo una portata con pane, pasta secca o pizza, dobbiamo sempre considerare l’effetto tampone che queste basi neutre operano sui cibi. Nel caso di specie, non avendo bisogno di corposità eccessive, questo antico stile renano caratterizzato da base maltata e carbonazione, da toni floreali e mielati, ben s’incontra con il contributo proteico e l’aromaticità del grasso, preparando la bocca per il prossimo morso. Un manifesto di irresistibili semplicità, con invitanti richiami alla freschezza.
Rosetta con mortadella
La rosetta (o michetta, vista l’origine milanese) è un pane corto, alto e ben lievitato, che visto da sopra ricorda l’omonimo fiore. Ma per molti della mia generazione rappresenta soprattutto la merenda pomeridiana dopo estenuanti partite a calcio o il pranzo delle prime fughe al mare con il motorino. Con la mortadella a fare da perfetto companatico, ghiotta ed economica.
Per l’abbinamento ci volgiamo verso una Saison “vecchio stile”, con la sua matrice belga, la tipica rusticità e una leggerissima acidità coniugata a una lieve pennellata amaricante: la CO₂ e la secchezza nettano il grasso e aggiungono all’accogliente “dolcezza” della mortadella le fragranti note aromatiche della frutta a polpa bianca, delle spezie e dei fiori. Un frugale godimento, intenso e incapace di stancare.
Panuozzo napoletano con pancetta e provola
Si tratta di una specialità dall’origine recente, ma già divenuta un vero classico: una sorta di panino dalle grandi dimensioni, ricavato dall’impasto della pizza e che, una volta spaccato a metà, si può farcire a piacimento. Gragnano, ai piedi degli importanti Monti Lattari, è una località nota per la produzione di pasta secca, ma è anche sede del locale del pizzaiolo Giuseppe Mascolo. In un giorno del 1983, volendo preparare qualcosa di diverso per i suoi tre figli, forgiò quello che la piccola Pasqualina battezzò come Panuozzo: piacque così tanto che fu inserito nel menu della pizzeria e, nel 1996, ne venne registrato il marchio.
Dovendo affrontare un cibo intenso, grasso e persistente scegliamo una Belgian Blond Ale, dotata di corpo, persistenza gusto-olfattiva e carbonazione adatti allo scopo. Il contributo dei lieviti belgi ingentilisce la poderosa forza dell’umami e la sapidità, riconoscibili e peculiari; la carbonazione e l’alcol aiutano a detergere grassezza e untuosità; il corpo rotondo si connette perfettamente al morso ampio, longevo, importante. Il risultato finale è di suggestioni fruttate, di una ricca complessità gustativa, di grande appagamento.
Bun con cheeseburger
Un cibo, l’hamburger, divenuto slogan internazionale. Con una storia ancora non del tutto chiara, in cui non ci addentreremo, che ha richiamato l’interesse di storici e appassionati e addirittura un’indagine della Biblioteca del Congresso americano. Di certo, gli elementi acclarati sono due: l’hamburger steak, la pratica polpetta di carne di manzo alla maniera degli emigranti tedeschi di Amburgo (che la esportarono intorno alla metà del XIX secolo); e l’intuizione di metterla dentro il burger bun, il pane a tendenza dolce, rotondo, alto e morbido, perfetto per quella “svizzera” circolare e in grado di accogliere succhi e sughi, servito per la prima volta da Oscar Weber Welby, nel 1891, nel suo caffè di Tulsa (Oklahoma), in sostituzione del tradizionale patty melt (composto da due morbide fette di pane di segale, tostate e imburrate).
Per il nostro condimento abbiamo deciso di aggiungere una fetta di Emmentaler AOP e per l’abbinamento abbiamo optato per una Double IPA. In generale, abbinare gli stili luppolati non è facile. Ma in questo caso abbiamo un cibo strutturato (con carne e formaggio) e persistente e dunque abbiamo bisogno di corpo, alcol, malto, carbonazione e un finale opportunamente capace di “ripulire” dal trionfo di grassi e untuosità. La birra ha un grande impatto olfattivo (fiori, resine, frutta tropicale, terroso), ma soprattutto una possente presenza dei malti, con note mielate-caramellate che incontrano la carne e spengono la tenue acidità del formaggio, mentre carbonazione e amaro finale aiutano a contrastare le tendenze dolci. In retrolfattiva, è splendido il ritorno della freschezza balsamica che ben si lega alle generose percezioni umami e alle melanoidine della cottura della carne.
Trapizzino® con polpette al sugo (di carne)
Senza timori di smentita, il Trapizzino una delle più geniali invenzioni gastronomiche contemporanee. Operata oramai qualche anno fa da Stefano Callegari, pluripremiato pizzaiolo romano e vero maestro dell’impasto, con l’idea di realizzare una pizza in teglia più alta e soffice del normale, che fosse sezionabile triangolarmente come un tramezzino, diventando una tasca da riempire con condimenti a piacere: dalla crasi tra i due cibi-genitori è arrivato il nome.
Noi abbiamo optato per l’intingolo al ragù e gli abbiamo abbinato una Old Ale, maltata, alcolica ed equilibrata. Le note aromatiche dipendono chiaramente dalla ricetta e da quanto/come la birra abbia maturato e affinato, ma in generale la solidità e la morbidezza dei malti vantano affinità elettiva col ragù, con la sua intimità abbracciante, la gentile sapidità e la lieve acidità. L’alcol aiuta a rimuovere l’untuosità, mentre il ritorno olfattivo è un esaltante subbuglio edonistico, fatto di spezie dolci, pane cotto e saporosità proteica della carne.