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In Francia si parla di vière, un modo diverso (e scorretto) di chiamare le Italian Grape Ale

Quello delle Italian Grape Ale è uno stile celebrato e mortificato allo stesso tempo. È celebrato perché al mondo sono tantissimi i birrifici e gli esperti interessati a confrontarsi con una tipologia che unisce il mondo della birra con quello del vino, riconoscendola come il frutto della creatività dei birrai italiani. È mortificato perché spesso quella paternità – sulla quale non ci sono dubbi – viene rinnegata o ridimensionata, seguendo una tendenza che non si verifica per nessun altro stile birrario. L’esempio più clamoroso si è avuto con le scelte del BJCP, che nell’edizione 2015 delle sue Style Guidelines codificò l’espressione Italian Grape Ale, salvo poi togliere il riferimento al nostro paese nella revisione del 2021 fino ad arrivare al pastrocchio della doppia definizione. Una decisione che ha contributo a creare confusione attorno allo stile, favorendo la nascita di altre denominazioni.

Da qualche tempo nell’ambiente birrario francese si è cominciato a parlare di vière, un neologismo che nasce dalla fusione tra i vocaboli “bière”, birra, e “vin”, vino. Al di là che possa piacere o meno come parola – a noi sembra orrenda quanto potrebbe esserlo “virra” (vino + birra) in italiano – appare come un modo furbo e sciovinistico di ribattezzare una tipologia brassicola già codificata, quella appunto delle Italian Grape Ale. Il vocabolo è stato inventato dal birrificio Gallia, dal 2023 sotto il controllo di Heineken, che presumibilmente ha interesse ad usare un’espressione diversa da quella già esistente. Sebbene lo stesso sito viere.fr citi l’Italia come luogo d’origine dello stile, pur con diverse imprecisioni:

Le origini della vière risalgono all’inizio degli anni 2000 in Italia, con la creazione delle Grape Ale. Queste birre all’uva erano birre a fermentazione spontanea di stampo acido, con successiva aggiunta di mosto d’uva. Tuttavia, è importante notare che le Grape Ale e le vières non sono del tutto simili nel gusto e nel principio di produzione. Le vière sono un prodotto ibrido, né birra né vino, derivante dalla co-fermentazione tra mosto d’uva e mosto di cereali. Si è evoluto nel corso degli anni e si è affinato grazie ai progressi tecnici e alla creatività dei birrai.

Che le prime IGA fossero a fermentazione spontanea è un’affermazione totalmente infondata. La pionieristica BB10 di Barley, realizzata con mosto cotto (sapa) di Cannonau, partiva dalla base di un’Imperial Stout fermentata in maniera convenzionale, priva di elementi sour provenienti dall’interazione con microrganismi non “ortodossi”. Anche le IGA che vennero subito dopo furono prodotte con lieviti selezionati e senza contaminazioni. Una delle primissime eccezioni fu la BeerBera di Loverbeer (uve Barbera), effettivamente frutto di una fermentazione spontanea attivata dai lieviti selvaggi presenti sulle bucce dell’uva (e senza inoculo del birraio). Ma appunto quella di Loverbeer fu all’epoca un’eccezione e ancora oggi il bilancio tra IGA sour e convenzionali pende decisamente verso le seconde: nel nostro concorso IGA Beer Challenge, che contempla categorie suddivise in base al tipo di fermentazione, le sour rappresentano solo il 30% del totale delle birre iscritte.

Continua il sito viere.fr:

Tra i pionieri della produzione di vière troviamo il birrificio italiano Baladin, che si è distinto nel campo delle Brut Ale e delle altre birre all’uva. Va tuttavia sottolineato che le birre d’uva di Baladin sono state più una fonte di ispirazione che un punto di partenza per la creazione delle vière.

A Baladin possiamo riconoscere tanti primati, ma non di essere stato un pioniere delle Italian Grape Ale. È vero che alla fine degli anni ’90 Teo Musso realizzò una birra con mosto di Dolcetto battezzata Perbacco, ma quel prodotto rimase un esperimento mai commercializzato. Sapete fino a oggi quante birre all’uva ha rilasciato il birrificio Baladin? Zero.

Ma allora da cosa nasce l’esigenza di creare un neologismo alternativo a Italian Grape Ale? Difficile trovare motivi legati alla produzione, poiché nelle principali fasi di realizzazione delle vière non sono presenti elementi peculiari. Il tanto decantato processo di co-fermentazione tra birra e vino non è escluso dalle caratteristiche delle Italian Grape Ale, così come gli ingredienti base della vière non sono altro che uva, cereali e luppolo. La vaghezza della definizione di Italian Grape Ale – che ormai è chiaro essere il vero punto debole dello stile, perché favorisce incomprensioni e vacuità – si ritrova anche in quello di vière, poiché “è disponibile in diversi colori e sapori, a seconda del tipo di uva utilizzata e del processo di lavorazione”.

Insomma, non sembrano esserci ragioni concrete per la nascita di un neologismo che indica qualcosa già insito nella definizione di Italian Grape Ale. Tuttavia nell’ultimo anno e mezzo il neologismo in Francia ha raggiunto testate specializzate, tra cui la rubrica de Le Figaro dedicata all’enologia, alimentando anche un certo rifiuto da parte del movimento della birra artigianale francese, che non accetta il nome imposto dalla multinazionale olandese. A ogni modo il termine vière, pur con tutti i suoi limiti, è più vendibile di Italian Grape Ale, che invece appare molto tecnico e poco comprensibile al grande pubblico – nonché impreciso per quel riferimento esclusivo all’alta fermentazione. E no, non se ne esce aggiungendo una “F” davanti all’acronimo, come visto fare qualche volta in passato.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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