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Italian Grape Ale ed etichette contestate: due sentenze a favore dei birrifici

Chi bazzica il mondo della birra artigianale sa bene quanto kafkiana può rivelarsi la burocrazia italiana. Anche solo aprire un birrificio può significare infilarsi in un ginepraio senza fine, ma la situazione diventa particolarmente surreale quando ci si avventura ai limiti della sperimentazione, dove non arrivano le contorte e obsolete regole che disciplinano il settore. Un caso particolarmente indicativo è rappresentato dalle Italian Grape Ale, birre prodotte con mosto d’uva, che soffrono di questo problema perché si muovono in un territorio a cavallo tra due mondi e, dunque, non ben regolamentato. Il risultato è che i birrifici sono spesso penalizzati da interpretazioni cervellotiche e accusatrici degli enti di controllo, che sfruttano qualsiasi cavillo per creare problemi – in genere senza malafede, non comprendendo semplicemente il prodotto che hanno di fronte. Per fortuna ora alcuni di questi limiti potrebbero essere superati.

Negli ultimi mesi l’Ispettorato centrale repressione frodi (ICQRF) ha curiosamente intensificato i controlli proprio nel segmento delle Italian Grape Ale, prendendo di mira nello specifico le etichette. Nell’incomprensibile interpretazione dell’ispettorato, qualsiasi testo o elemento grafico che richiami il vino o l’uva è considerato pubblicità ingannevole nei confronti del consumatore finale, sebbene in etichetta sia spiegato chiaramente (in lettere e in immagini) che quella contenuta nella bottiglia è birra. Inoltre tutti i birrifici sono tenuti a specificare l’ingrediente speciale nella denominazione del prodotto quando questo ha un impatto decisivo sulle caratteristiche organolettiche dello stesso. Quindi un birrificio è tenuto a scrivere “birra alle ciliegie” o “birra alle castagne”, ma se si azzarda a riportare la dicitura “birra al mosto di vino” rischia una contestazione – che per la cronaca può portare a una multa e al sequestro di tutte le bottiglie.

Il problema è diventato talmente rilevante che di recente i birrifici hanno smesso addirittura di scrivere Italian Grape Ale in etichetta, perché quel “grape” potrebbe esporre l’azienda a provvedimenti simili. Lo abbiamo visto di recente con la Hop on the Hill di Sagrin, dove la parola è stata “censurata”, ma anche qualche settimana fa con la collaborazione tra Canediguerra e North Brewing. È surreale che i birrifici italiani per premunirsi debbano rinunciare a scrivere il nome dell’unico stile birrario riconosciuto come italiano. Ora però uno di queste vicende è destinata a fare storia in termini legislativi, sperando che aiuti a risolvere l’intera questione.

La notizia arriva da Unionbirrai, che nel 2022 offrì supporto legale a un birrificio emiliano, costretto a incassare una contestazione dell’ICQRF a causa di una sua creazione. In etichetta infatti erano riportate sia la dicitura “birra alla saba”, sia la saba come ingrediente nella relativa lista. Nulla di strano, si potrebbe pensare, ma non per l’Ispettorato, che invece si mosse con le logiche interpretative spiegate in precedenza. Il ricorso del birrificio è stato accolto dal Tribunale Civile e Penale di Bologna, che non ha ravveduto problemi di comunicazione ingannevole. Ecco un estratto della sentenza:

Il prodotto […] è dunque presentato sul mercato in modo del tutto trasparente, e non fuorviante. Chi si approccia a tale prodotto riceve una corretta informazione in conseguenza della quale comprende facilmente che si tratta di una birra artigianale tra le cui componenti dettagliate esplicitamente in etichetta compare anche (al 3%) la saba o mosto cotto, ingrediente che conferisce alla birra artigianale in esame una particolare caratteristica e gusto, di impossibile confondibilità con prodotti vinicoli.

Questo essendo il risultato valutativo finale, è da considerarsi ininfluente e superato il parere del Ministero dello Sviluppo Economico risalente al dicembre 2010 (doc. 5 opponente, prime cure). Ciò si dice, tanto più che tale parere precede di circa 16 anni il Testo Unico del vino di cui alla legge 238/2016, il cui articolo 43 contiene il comma 3 a superamento del comma 2 e a superamento della norma precedentemente vigente (art. 13 d. lgs. 61/2010, il cui comma 1 era sostanzialmente identico all’attuale comma 2 dell’art. 43). Sussiste dunque piena armonia fra i due testi normativi (legge 1354/62 e legge 238/2016), se correttamente intesi e valutati rispetto alle birre che vengono messe in vendita con chiara e precisa esplicitazione degli ingredienti alimentari caratterizzanti (compreso l’ingrediente saba o mosto cotto).

In particolare il comma 2 dell’articolo 43 del Testo Unico del vino impedisce a qualsiasi bevanda di usare termini e raffigurazione che richiamino il mondo del vino (vino stesso, vite, mosto, uva, ecc.), a eccezione di quelle espressamente elencate dalla legge. Il comma 3 aggiunge però che le disposizioni non si applicano nel caso in cui gli stessi termini siano riportati nell’elenco degli ingredienti.

Nonostante la sentenza del Tribunale di Bologna, le ispezioni sono continuate con le stesse modalità di prima. Un mese fa però è arrivata una nuova sentenza, che si spera possa dare un’ulteriore spallata a un modus operandi arrogante e ai limiti della costituzionalità. Questa volta a esprimersi è stato il Giudice di Pace di Acqui Terme, interpellato per una sanzione relativa all’uso della parola “mosto” seguita dalla denominazione di origine del vitigno. Riprendendo proprio la sentenza del Tribunale di Bologna, il giudice ha spiegato che:

Le motivazioni spese dal Tribunale felsineo sono pienamente condivisibili, poiché emerge chiaramente come la condotta, analogamente tenuta dal ricorrente, non sia tale da ingannare i consumatori. Pertanto l’ordinanza-ingiunzione va annullata.

Le problematiche relative all’etichettatura delle IGA non sono superate, ma intanto il comparto ha ottenuto due vittorie importanti, nella speranza che servano a normalizzare una questione a tratti incredibile. Vittorio Ferraris, direttore generale di Unionbirrai, ha così commentato la vicenda:

Unionbirrai si dichiara soddisfatta delle due sentenze, in quanto testimoniano senza dubbio la necessità da parte dei birrifici di seguire la legge sull’etichettatura della birra, che impone di indicare chiaramente l’ingrediente caratterizzante, anche se questo, in ambito di produzione delle IGA, va in contrasto con le altre leggi in vigore inerenti il vino. Una contraddizione di cui siamo consapevoli e che va sanata. Stiamo lavorando in tal senso per portare all’attenzione delle istituzioni interessate la situazione legislativa, affinché questa anomalia sia rimossa normando in maniera precisa e non lasciando alle istituzioni di controllo l’interpretazione delle leggi, situazione che mette in difficoltà anche le autorità stesse.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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