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Ecco a voi tre nuovi produttori: Della Granda, MC77 e BAV

In barba alla crisi economica, il settore della birra artigianale in Italia continua a mostrarsi moderatamente in salute. Chi negli scorsi anni ha raggiunto una certa stabilità nel mercato ora può vivere sonni tranquilli, mentre nel frattempo nuovi produttori appaiono all’orizzonte. Proprio in riferimento a coloro che si sono recentemente lanciati nella mischia, oggi andremo alla scoperta di tre aziende brassicole che sono andate a rimpolpare l’ormai elevatissimo numero di microbirrifici italiani.

Il primo è il Birrificio della Granda, operativo a Lagnasco (CN) da settembre 2011. Il suo creatore e birraio è Ivano Astesana, classe ’74 e entrato in contatto con la birra artigianale alla fine degli anni ’90 – Piozzo non è distante da Lagnasco, se sapete a cosa mi riferisco 😉 . Nonostante qualche sporadico esperimento da homebrewer, per molti anni Ivano è stato cultore più che birraio casalingo, complice il poco tempo disponibile causa lavoro. Poi nel 2007 è subentrato nella conduzione dell’azienda agricola di famiglia e le cose sono cambiate: il maggior tempo libero gli ha permesso di gettarsi a capofitto nell’homebrewing, ispirato anche dalla lettura del libro Radical Brewing di Randy Mosher.

La disponibilità di un capannone da ristrutturare è stata l’occasione per compiere il grande salto e affiancare la produzione brassicola alla coltivazione dei campi. L’avviamento dell’impresa ha richiesto un paio d’anni, finché a settembre 2011 il birrificio ha finalmente commercializzato la prima cotta, realizzata su un impianto da 10 hl.

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Il Birrificio della Granda produce al momento quattro tipologie di birra, tutte ad alta fermentazione, rifermentate in bottiglia e disponibili nel formato da 33 e 75 cl. La PassionAle (5,0% alc.) è una Blanche fuori dall’ordinario, realizzata con segale e caratterizzata da una maggiore secchezza e un amaro leggermente più pronunciato rispetto allo stile di riferimento. L’EssenziAle (5,0% alc.) è la birra base, non una Pils o una Golden Ale, ma una Pale Ale discretamente luppolata e che in futuro tenderà a virare verso un’APA dal tenore alcolico leggermente superiore. L’AbbaziAle (6,5% alc.) trae ovviamente ispirazione dal Belgio, nascendo come “clone” della Chimay Rossa prima di trovare un suo preciso carattere. La SpirituAle (8,0% alc.), infine, è una versione più “muscolare” dell’AbbaziAle, con il malto caramello utilizzato solo per sostenere l’elevata gradazione alcolica.

Proprio in questi giorni Ivano dovrebbe aprire una birreria a Saluzzo (CN), dove immancabilmente saranno presenti le sue birre. Per saperne di più sul birrificio, vi rimando al relativo sito web.

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La seconda azienda che andiamo a scoprire è una beer firm e si chiama MC77. Dietro al progetto ci sono Cecilia Scisciani e Matteo Pomposini, due giovani accademici con diversi anni di homebrewing alle spalle, che a un certo punto hanno deciso di trasformare il gioco in un’impresa. Il logo ricorda i cartelli segnaletici delle strade statunitensi: in effetti l’identità visiva è dedicata alla statale 77, che i due si trovavano a percorrere ogni volta che da Roma raggiungevano il loro “laboratorio” da homebrewer. Attualmente le birre sono realizzate presso il Birrificio Maiella, ma in futuro c’è l’idea di utilizzare un proprio impianto produttivo a Caccamo di Serrapetrona (MC), dove al momento è presente il magazzino (e la sede legale).

A marchio MC77 sono al momento disponibili tre birre. La San Lorenzo (5,0% alc.) – dedicata all’omonimo quartiere capitolino – è una Blanche piuttosto “regolare”, con un finale leggermente più amaro del previsto, che la rende fresca e beverina. L’Ape Regina è una Blond Ale piuttosto alcolica (7,4% alc.), morbida e maltata, che prevede l’impiego di miele d’acacia. La Bastogne (6% alc.) è infine un’APA dal carattere deciso, con l’immancabile ampio uso di luppoli americani.

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Ulteriori informazioni su MC77 sono disponibili sul sito web ufficiale, se poi volete saperne di più sul progetto, vi rimando a questa intervista apparsa su Laundry.

Ultimo produttore di oggi è il Birrificio Artigianale Veneziano, che in realtà non è proprio giovanissimo (ha aperto i battenti a fine 2010). Si trova a Martellago (VE) in un capannone da 400 mq, nel quale trova anche spazio un’area degustazione con due pompe Angram e due vie a Co2. Per quanto riguarda il birrificio, di cui sono soci Enrico Cornelli, Andrea Cecchin e Marco e Nicola Favero), l’impianto è elettrico da 650 litri a cotta e tre fermentatori da 1.500 litri a temperatura controllata (presto saranno sei).

Le birre prodotte sono sei, tutte rifermentate in bottiglia o in fusto. Le prime tre sono state “le Furie”: la Furia, una Pils da 5,2% alc.; la Furia Rossa, una Bitter da 5,4% alc.; la Furia Nera, una Belgian Dark Ale da 6,7% alc. Successivamente si sono aggiunte altre tre birre: la SenTai (6,3% alc.) è una Belgian Strong Ale, la Barba (5,7% alc.) una APA ambrata, mentre la 1211  (6% alc.) è definita come Italian Stout.

Con questo è tutto. Avete mai provato qualcuno dei produttori menzionati nel post?

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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28 Commenti

      • Ciao,

        è il primo commento che scrivo su questo blog e ne approfitto per salutare tutti gli appassionati che lo seguono ed il “padrone di casa”, che per ora conosco solo via email ma che devo dire essere molto disponibile!

        Per quel che riguarda i nomi delle birre, vi do ragione sul fatto che il gioco della desinenza sia ormai arcinoto e possa aver annoiato il pubblico affezionato alla birra artigianale. ReAle, ComunAle, ecc… tutte grandi birre che in qualche modo hanno fatto la storia del movimento.

        La considerazione che però mi ha spinto a scegliere comunque questo filo conduttore per i nomi dei prodotti “base” del birrificio, è che per la sopravvivenza dello stesso il mio bacino di utenza è quel fatidico 99% dei bevitori di birra che non conosco ancora questo tipo di prodotto.
        Per queste persone la desinanza Ale solleva un pizzico di curiosità e mi offre la possibilità di spiegar loro cosa sia un’alta fermentazione. E così da dietro il bancone da cui magari sto sbicchierando una bottiglia di triple cerco di interessarli al processo da cui dopo parecchie settimane nasce la birra che stanno sorseggiando.

        Considerate che qui in provincia di CN, dove ho dei vicini molto visibili e molto radicati nel territorio, la maggior parte dei pubblici esercizi in cui sono riuscito ad inserire la birra non aveva mai tenuto nel menù un prodotto artigianale.

        Per il prossimo periodo invece la mia produzione si allargherà a birre differenti e mirate ad un pubblico smaliziato, con etichette e nomi studiati di conseguenza.

          • Non si è mai verificato il problema perchè chi legge il nome per la prima volta di solito non sa nemmeno cosa sia una “ale” e quindi lo pronuncia (giustamente) all’italiana.
            Se poi si incuriosisce per la A maiuscola … scopre leggendo sul sito o parlando con me che cosa siano le ale intese come tipologia di fermentazione. A questo punto molti mi dicono:
            Ah, ecco perchè sotto la scritta Ceres c’è la dicitura Strong Ale 🙂

            Da lì si inizia a scherzare, ma molte persone si scoprono davvero interessate a capire un po’ di più un mondo che prima vedevano diviso solo in rosse, bionde, doppio malto, piccole e medie.

            Qualcuno che si beveva una Chimay ogni tanto, cade dalle nuvole scoprendo che è rifermentata in bottiglia 🙂

          • A maggior ragione non vedo il senso di questa usanza.
            Gioco di parole che faceva ridere gli appassionati (e solo loro), ma che dopo che tutti ne hanno abusato ottiene l’effetto contraio IMO.

      • Sei fuoristrada la gradazione non c’entra.

        Dire Pils rifermentata in bottiglia sarebbe come dire in campo enologico Passito di Pantelleria prodotto con metodo Champenoise.

        Io che non ne so niente di vino, so che sta cosa è impossibile, mentre in campo birrario si sente di tutto.

        A te pare poco come bestialità? Di cose simili ne leggo tutti i giorni in tutti i blog, compreso questo, ma questa è davvero grossa, benché diffusa.

        La Pils nello specifico non c’entra, potrebbe essere anche una Lager, Helles o qualsiasi altra bassa.

        La rifermentazione non è un sistema produttivo/conservativo applicabile alle basse in generale.

        Adesso non rispondermi che esistono le Pils rifermentate in bottiglia, so benissimo che ci sono birrifici (birrifici?) che lo dichiarano in etichetta, ma non solo non sono Pils, non sono nemmeno basse.

        Così come esistono le Pils Belghe e saranno pure buone, ma continuano a non essere Pils. (do you remember?)

        • Ernesto non solo mi tocca ascoltare sempre lo stesso disco rotto (con perdita di tempo del sottoscritto), che denota zero propensione alla discussione, ma anche scoprire che scrivo “bestialità”, quando mi limito a riportare quanto scritto altrove o espresso da altri.
          Mi sono stufato.
          Le tue convinzioni, alcune delle quali partono da considerazioni giuste, sono incancrenite dalla tua poca disponibilità alla discussione. Rimani con le tue certezze indissolubili – sì, formatesi sull’esperienza pluriannuale accanto a grandi mastri birrai tedeschi e cechi, risparmiami la manfrina – ma evita di tediarmi/ci ulteriormente. Anche perché se non ci penserai tu, lo farò io.
          Grazie.

  1. Ormai stare dietro a tutte le novità è davvero difficile, comunque la cosa che noto è che un IPA o APA non se la fa mancare nessuno, a conferma che evidentemente è il genere che “tira” di più e il boom romano ne è la conferma.

    • Ciao,

      secondo me questa tendenza (almeno nel mio caso specifico) deriva dal fatto che l’APA è uno splendido stile che permette di fare una birra semplice e d’avvicinamento al mondo artigianale eppure straordinariamente diversa dal tipo di birra chiara a cui è abituato il bevitore di birra industriale.

      Non credo che sia un caso che negli USA il mercato dell’artigianale sia arrivato a fette di mercato importanti, proprio grazie a questo stile.

      Ovviamente è la mia opinione.

      • Sicuramente per coinvolgere i nuovi consumatori è il genere migliore perché come dici tu giustamente è molto diverso (basta dargli “un’annusata”).
        Comunque la mia non voleva essere una critica, ma una constatazione.
        Ti auguro le migliori fortune e mi auguro di poter provare le tue birre quanto prima :-).

  2. Aggiungo solo un aneddoto.
    Nel 2005, quando incontrai Leonardo Di Vincenzo nel suo (allora) piccolo birrificio a Borgorose, non potei fare a meno di notare l’assoluta mancanza di fantasia nella scelta dei nomi. Ma le sue birre erano veramente buone e lui in quel periodo era solo, faceva tutto lui ed aveva pochissimo tempo forse pure per dormire.
    Mi aveva colpito la genesi del nome della sua birra alle castagne, che in un momento di slancio creativo era stata appellata “castagnale”, il fatto è che una volta che hai affibbiato un nome ad un prodotto, che magari è piaciuto al pubblico (il prodotto), difficilmente torni indietro.

    • Per ricollegarmi a quanto hai scritto, sempre Leonardo provò proprio a cambiare nome alla Castagnale, che per un anno venne ribattezzata Castanha. Evidentemente la scelta non incontrò i favori del pubblico, poiché si tornò presto al nome originale. Un motivo in più per scegliere nomi giusti sin dall’inizio

    • Tutto il rispetto per i birrai, ma la tanto osannata creatività italica spesso si perde e svanisce inseguendo nomi banali o ripetitivi, che spesso si mettono in scia di un solco già tracciato. Troppa autoreferenzialità.

      • Il fatto è che o sei birraio o sei marketingaro, non si può far tutto, ma in genere, soprattutto all’inizio si cerca di risparmiare. E’ da qui che vengono nomi non appropriati e soprattutto etichette che farebbero sembrare robaccia anche la migliore birra del mondo.

  3. Sull’etichetta posso essere d’accordo, è un investimento te lo garantisco, tempo e denaro. Ma sul nome proprio non capisco questa storia dell’Ale. I pionieri Bi-Dù e Borgo secondo me hanno giocato bene sul finAle ma oramai non ha quasi più senso. Cavolo, ogni birraio ha le sue passioni, le sue manie, il suo bagaglio culturale o quello che ti pare o mi sbaglio?

    • Ci mettiamo una pietra TombaAle© sopra?

      Senza scervellarmi troppo domando: esiste qualche “bassa” che utilizza tale gioco di parole? Sarebbe notevole 😀

    • Tanto per ritornare in temi triti e ritriti tutti noi attendiamo con trepidazione la MaiAle (sul tema delle Maibock) e la fermentazione spontanea con ciliege griotte MestruAle.

      Comunque credo che in un momento del genere, di grossa diffusione per la birra artigianale, l’aspetto del marketing con etichette riconoscibili e che catturino l’attenzione, non può più essere sottovalutato.

  4. Anch io concordo che i nomi delle birre potrebbero essere più originali.
    Sicuramente i consumatori del posto non ne sapranno molto di Ale ( come diceva Ivano ) però è anche vero che in questo “mondo” le novità escono fuori in fretta e la voce gira subito, di conseguenza all’esperto che legge le nuove birre o allo stesso Birrificio che tra i primi usò quel tipo di nome, rileggere ancora una volta BirrAle suona come mancanza di originalità e chissà se metta un piccolo pregiudizio anche sull lavoro che c’è dietro alla birra.
    Ci sono pro e contro in ogni scelta 🙂
    Io avrei indottrinato subito i clienti del posto già direttamente col nuovo nome originale messo nel mercato per la mia birra 🙂
    Chessò già chiamarla
    [email protected]
    [email protected]

    ahah che cavolate, vabbe ciao!

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