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Segreti ed emozioni delle birre vintage: intervista a Gianluca Polini (Ottavonano)

Foto: Luciano Pignataro

Cristallizzare la vita, non permetterle di sfaldarsi, battere il tempo: sono alcune sfumature di una delle grandi utopie del genere umano. Ecco perché più convincente e proficuo è, da sempre, “usarlo”, farselo amico, accettare che scorra, che porti cambiamenti, evoluzioni, decadimenti. Nel caso delle bevande alcoliche, birre comprese, la capacità di affrontare il tempo rimane una sfida affascinante, su cui uno dei locali che più ha investigato è l’Ottavonano (sito web) di Atripalda (AV). Al di là del nome che a più di qualcuno evocherà felici ricordi televisivi, parliamo di un pub ammirabile per coraggio e competenza. Che, lontano dalle luci delle grandi città, già nella prima metà degli anni 2000 si occupava di birre di qualità. Sono due le teste dietro questo piccolo miracolo brassicolo di provincia: Yuri Di Rito, fondatore del locale, e Gianluca Polini, subentrato nel 2005, che ha dato il via proprio al progetto sugli invecchiamenti.

Oltre a essere un amico, Gianluca è apprezzato formatore e stimatissimo publican, classe 1977, cresciuto in provincia di Salerno e spostatosi ad Atripalda per amore… della birra.

Un sentimento che comincia a 16 anni, all’Easy Riders di Salerno con la Guinness. La birra mi appassionava, volevo saperne di più. Comprai “Guida alle birre del mondo” di Michael Jackson – che poi scoprì essere una pietra miliare – e me ne innamorai. Dopo un anno in Inghilterra, nel 1998 andai a lavorare in un pub di Pontecagnano (SA), conosciuto per le tante referenze trappiste, allora una rarità: ricordo che più di metà delle 40.000 lire della paga si trasformavano in bottiglie da portarmi a casa…

Era partita la malattia.

La parola giusta. Mi indicarono un grande spaccio a Napoli e lì conobbi la Thomas Hardy’s Ale: costava 3.950 lire, più del doppio delle belghe speciali in commercio, ma ero disposto a tutto pur di assaggiare novità. Pensai anche fosse giunto il momento di “andare alla fonte” e decisi di cominciare con qualche festival in Belgio, ottenendo utilissime informazioni dal consolato. Nel 2001 partecipai alla “24 ore di Anversa” e conobbi il mitico Kulminator.

Immagino la tua faccia davanti alla biblica carta delle birre e alle decine di vecchie annate.

Rimasi semplicemente folgorato e comprai diverse bottiglie.

Poi arrivò l’Ottavonano.

Era a 40 km da casa, ma ci andavo spesso, perché alla spina c’erano sempre birre diverse e si poteva curiosare e imparare dalla competenza di Yuri. Chiacchierando venne fuori che aveva bisogno di una mano, non dovette ripeterlo due volte: era un martedì, il venerdì avevamo chiuso l’accordo e mi ero trasferito ad Atripalda.

Non appena presi bene le misure, programmai serate di abbinamenti (anche con la cucina di chef stellati), di divulgazione (tra gli altri ospiti, Kuaska, Roger Protz e Joris Pattyn) e immaginai di iniziare un progetto sugli invecchiamenti.

E siamo arrivati al punto. All’Ottavonano non si trascura nulla – c’è massima accuratezza nel servizio, ricerca continua sulle referenze, un’ottima cucina. Molti tuttavia vi hanno conosciuti grazie al lavoro sui vintage: a te come è venuta questa passione?

Le passioni non hanno quasi mai una spiegazione razionale. Certamente quando ho vissuto in Inghilterra sono rimasto colpito dalle Real Ale e dalla figura del publican tradizionale, che contribuisce alla maturazione della “birra verde”, indirizzandola: non è solo capace di selezionare e spillare, ma risulta un vero finalizzatore del lavoro del birraio. Un po’ come chi mette le bottiglie in cantina: bisogna intuire il potenziale di invecchiamento, capire in che direzione andrà la birra e in che modo ci andrà, generando un prodotto diverso da quello iniziale. Servono conoscenza, esperienza e intuito, ma anche la libertà di credere in un’etichetta e di potersi sbagliare.

Per fare birre da cantina servono tempo, più materia prima e di qualità migliore, facendo aumentare il prezzo. Pensi sia questo il loro limite di diffusione o c’è dell’altro?

Certamente i costi contano, però forse è semplicemente che sono prodotti particolari, da appassionati più leziosi, che foraggiano un “mercato secondario” molto vivace. La cosa certa è che, anche se poi non le acquistano, tutti rimangono ammaliati da birre di questo tipo.

Parlami un po’ della vostra cantina.

E’ in un vecchio palazzo a due passi dal locale e i parametri fondamentali (assenza di luce, giusta umidità, temperatura fresca e costante) sono perfettamente rispettati. Dentro ci sono solo i cartoni delle birre, non c’è nessun elemento “esterno” che possa portare microrganismi guastanti. E poi al pub c’è la frigovetrina termoregolata, con vetrocamera, perché vogliamo dare la possibilità ai clienti di guardare e non solo di scegliere da una lista. E’ isolata con sughero e polistirolo, ci sono tre motori a muovere l’aria dall’alto verso il basso, con mensole di legno forate per la circolazione omogenea del fresco e il mantenimento di una temperatura tra 9° e 11°.

Quali sono gli elementi che vanno analizzati per propendere o meno per l’invecchiamento?

Il profilo maltato della ricetta, con una qualche percentuale di malto tostato, caramellato o fumè; la taglia etilica, almeno 8°; il pH, sotto 3.4; i contenuti di alfa e beta acidi nei luppoli presenti; la presenza di Brettanomyces, che generano una varietà unica di esteri e fenoli, tengono alla larga le componenti ossidative e si cibano dei sottoprodotti aromaticamente sgradevoli dell’autolisi dei Saccharomyces; la qualità delle materie prime; la non pastorizzazione. Non devono essere presenti tutti contemporaneamente, ma vanno considerati.

Quindi su che stili possiamo indirizzarci con certezza?

Pur con modalità di invecchiamento diverse, Barley Wine, Old Ale, American Barley Wine, Imperial Stout, Quadrupel, Flanders Red e Brown Ale e Geuze sono certamente stili indicati. Allo stesso tempo ciò non significa che tutte le birre di questi stili siano adatte all’invecchiamento né che birre che non appartengono a questi stili possano non esserlo.

Ci sono birre che nascono per entrare in cantina e riposare e ci sono birre che si può provare a metterci, birre buone subito, ma magari con nuovi profili dopo 3 anni: qui sta la sfida più grande, il fascino. Per quanto suadenti e irresistibili una Thomas Hardy’s Ale o una Harvest Ale di J.W. Lees lo sai che possono riposare in cantina. Mentre per esempio la sconosciuta Merck Toch Hoe Sterck, Belgian Strong Ale di Schelde Brouwerij, è stata in’intuizione e un’enorme soddisfazione: quando l’ho stappata, dopo averla invecchiata, ho voluto parlare col birraio ricevendo la sua sorpresa e la sua approvazione.

Una ricerca costante, fatta di sorprese, gioie e delusioni.

E’ essenziale, per non sedersi sempre sulle stesse bottiglie, perché abbiamo scelto questo lavoro per la soddisfazione e il godimento più che per le certezze. Sull’invecchiamento, la sorpresa è soprattutto in quelle birre che fresche sono inconsistenti mentre mature emozionano, come la Old Tom di Robinsons o la Jacobite di Traquair. Mentre altre che promettono longevità sono meglio fresche, come purtroppo mi è capitato con i vintage di Chimay.

Quali italiane hai provato a invecchiare e con che risultati?

Mi hanno letteralmente strabiliato la Bran di Montegioco, la Noa di Almond 22, la Memento Mori de Il Chiostro (prodotta proprio per l’Ottavonano) e la BB10 di Barley. E ci sono diversi “esperimenti” in corso o in procinto, con Hilltop, Bonavena, Ca’ del Brado e Brasseria della Fonte.

Qualche abbinamento che ti ha particolarmente colpito in tutti questi anni di esperimenti?

Difficile scegliere, ma ti direi: Thomas Hardy’s 1986 / erborinato di capra; St Bernardus ABT 12 del ’94 / pasta sfoglia dolce ripiena di crema di banana, finocchietto e cioccolato, con zabaione alla stessa birra; Harvest J.W. Lee 2008 / crostata di mele annurche; Harveys Imperial Extra Double Stout / torta caprese e crema al mascarpone

Chiudiamo sul sentimentale: la stappata del cuore.

D’istinto Thomas Hardy’s: è mitica, ci sono legato, ho bevuto tante annate (indimenticabili: 1974, ’86 e ’93) e sempre godendo. Ma la birra che mi ha riempito di meraviglia, bellezza e soddisfazione è la Imperial Extra Double Stout di Harvey’s: non sempre i campioni invecchiati sono a posto, per quello ne ho sempre una cassa in cantina [ride], ma quelli che lo sono… Wow! E’ qualcosa tra un Black Barley Wine maturo e un’Imperial Russian Stout, morbida, coi toni cioccolatosi e l’amaro sfuggente del rabarbaro e delle radici. Mi coinvolge, mi eccita.

Aggiungo anche un evento che a me e Yuri ha dato enorme gratificazione, la verticale della Darkness di Surly, nel 2017, con tutte le annate brassate (la prima nel 2007), oltre le due Barrel Aged: fu una degustazione unica nel suo genere in tutta Europa.

L'autore: Roberto Muzi

Docente, degustatore e consulente di settore. Classe 1980, appassionato di fermentazioni e di tutto ciò che riguardo quello straordinario micromondo abitato da lieviti e batteri, è responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore e giurato in alcuni concorsi nazionali. Ama leggere e bere birra mentre segue il calcio: una semplice scusa, sciocca e inossidabile, per foraggiare il consumo pro-capite italiano.

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