Partiamo subito mettendo in chiaro un punto: nessuno stile è “facile” da produrre in casa nel senso proprio del termine. Brassare un ottimo esempio di un qualsiasi stile richiede competenza, costanza, conoscenza, capacità tecniche e sensoriali. Oppure, come a volte accade, una grande botta di culo. Non esistono stili facili da produrre in assoluto, tuttavia esistono alcuni stili che, per tecniche produttive o equilibri gustativi, sono più difficili di altri. Per dire: a mio avviso una IPA decente la può fare chiunque. Magari diventa rosa o grigia dopo due settimane, oppure l’aroma è un po’ spento, l’amaro leggermente ruvido o il finale vagamente appiccicoso, ma non ci vuole uno scienziato per avere nel bicchiere qualcosa di bevibile che si avvicini alle macro caratteristiche dello stile.
Questo non significa che una IPA sia facile da produrre: di esempi “wow” fatti in casa ne ho bevuti pochissimi, ma io stesso sono riuscito a farne di decenti da quasi subito. Per gli standard che ho oggi non sarebbero sufficienti, ma nemmeno da buttare. Eppure, secondo me, alcuni stili richiedono un bagaglio culturale e tecnico, sia di assaggi che di competenze produttive, al di fuori della norma. Per fare una Bitter in stile devi averne bevute molte, moltissime. Ah ok, ma dove? In Italia praticamente non esistono, e se non viaggi tra i banconi dei migliori e peggiori pub del Regno Unito, non riuscirai mai a carpire l’essenza dello stile, ivi inclusi i difetti che spesso emergono quando qualcosa va storto.
Oggi mi sono divertito a fare una lista di quelli che, secondo me, sono i cinque stili più difficili da produrre in casa. Probabilmente non sono gli unici, ma a mio avviso costituiscono un bel banco di prova. Per i più semplici da produrre, rimando alla prossima puntata.
Flanders Red Ale (BJCP 23B)
Quando si varca la soglia del “mondo acido”, difficilmente si torna indietro. Sia come bevitore, sia come produttore. Un mondo vasto, a cui la definizione iper-semplicistica di “birre acide” mal si adatta. Per un lungo periodo, le birre acide hanno rappresentato una nicchia a cui si affacciavano solo i più coraggiosi e affezionati bevitori, diffusa per lo più in Belgio. Da diversi anni, complice anche l’interesse che la birra artigianale ha suscitato intorno alle piccole produzioni, le birre acide sono tornate alla ribalta. Se prima venivano prodotte solo in Belgio seguendo tradizioni antiche, oggi troviamo ottimi esemplari anche oltreoceano. Ultimamente mi è capitato anche di assaggiarne un paio in concorsi dedicati agli homebrewer: sebbene non fossero perfette, si trattava di birre piacevoli da bere. Il che è già tanto, quando ci si lancia nella produzione casalinga di una Flanders Red Ale.
Se produrre birre acide è in generale piuttosto difficile (intendo “vere” birre acide, non le produzioni frettolose e senza una particolare anima che spopolano in questi tempi), inventarsi una Flanders Red lo è ancora di più. In questo stile esiste un bilanciamento sottile, fondamentale ma difficilissimo da ottenere, che vede nel ruolo di protagonista un composto che in tutti gli altri stili si cerca di evitare: l’acido acetico. Le Flanders Red sono birre dal colore rubino, espressione di una buona dose di malti speciali passati per un processo di cristallizzazione. Se le venature di toffee e caramello conferite da questi malti non vengono ben bilanciate da un deciso spunto acetico, la bevuta diventa difficile.
Controllare la produzione di acido acetico durante la fermentazione non è affatto semplice, anzi. Si gioca tutta su un delicato bilanciamento tra presenza di ossigeno (che di solito si tende a tenere il più lontano possibile dalla birra), temperature e contaminazioni. L’acido acetico viene infatti prodotto da alcuni microrganismi per ossidazione dell’etanolo (alcol etilico), presente in tutte le birre. Acetobacter, ma anche Brettanomyces e Pediococchi favoriscono la reazione tra ossigeno e alcol riportando quest’ultimo allo stato di acido acetico.
Questa delicata interazione tra aria (che contiene una buona percentuale di ossigeno, come ben sappiamo) e microrganismi, in genere avviene nelle botti (spesso in botti grandissime, dette Foeders, che rendono più lenta e controllabile la formazione di acido acetico). Il legno lascia passare aria e contiene al suo interno una microflora attiva che lavora sulla birra. L’arte produttiva in questo stile è saper controllare l’attività dei piccoli microbi gestendo la botte tramite l’umidità dell’ambiente e le oscillazioni di temperatura. Quasi sempre, a meno di casi eccezionali, la birra finale è il risultato di un blend del contenuto di diverse botti: una più acetica, un’altra meno. Anche la miscelazione è un’arte, guidata dai sensi e dall’esperienza.
Riuscire a riprodurre tutto questo in casa ha qualcosa di magico, ancestrale, poetico. Serve competenza nell’utilizzo del legno e delle botti; serve il tempo, che inevitabilmente scorre lento mentre i piccoli microbi lavorano; serve uno spazio ampio per tenere botti di una certa dimensione (non Foeders, ma nemmeno piccole botticelle da 20 litri, dove gestire un ingresso eccessivo di ossigeno renderebbe la birra imbevibile); serve la giusta location (detta alla Alessandro Borghese), dove la temperatura si mantenga abbastanza stabile entro un certo intervallo di temperatura; serve un palato fine, per poter miscelare il contenuto di diverse botti creando un prodotto unico. Non a caso se ne trovano pochissime di birre di questa tipologia nei concorsi per homebrewer, ma quando capita le assaggio con estremo piacere e stima per chi ha almeno provato a lanciarsi in questa avventura.
Belgian Tripel (BJCP 26C)
Siamo di nuovo in Belgio. Questa volta usciamo dal mondo acido per entrare in un universo parallelo, più conosciuto e battuto perché alla portata di un bacino di bevitori decisamente più ampio. Andiamo sui classici immortali, stili che anche se finiscono sugli scaffali del supermercato possono riservare grandi sorprese. Diversi gli esemplari di Tripel, anche molto differenti tra loro, che possiamo trovare sugli scaffali del supermercato: penso alla Tripel di Westmalle, forse la madre di tutte le Tripel, con i suoi delicatissimi aromi di frutta candida e pera, secchissima, che sfoggia un tenore alcolico da 9.5 troppo ben nascosto; o alla Tripel di St. Bernardus, meno alcolica ma altrettanto intensa negli aromi che ricordano l’arancia, la banana con un contrappunto delicato di spezie.
Il segreto di queste birre è l’equilibrio, delicatissimo, tra componente fenolica (aromi di spezie come il chiodo di garofano) e quella fruttata (esteri che ricordano gli agrumi, la pera, la pesca, e solo in secondo piano la banana). Aromi che non si ottengono con l’aggiunta di spezie o frutta, ma tramite un controllo attento della fermentazione. Il lievito è il vero protagonista di questo stile, dove esprime tutto il suo potenziale sostenuto solamente da una base di malto Pilsner con aggiunta di una piccola dose di zucchero (candito o sciroppo) per favorire un finale secco. Il grado alcolico elevato non è facile da gestire: quando gli zuccheri da fermentare sono abbondanti, il lievito ha molto da lavorare. Per questo deve essere in forma e vivace: non sono concesse leggerezze, altrimenti si finisce con un bicchiere ricco di alcoli superiori che bruciano sul fondo della lingua e nella gola.
Impossibile, ad oggi, trovare un lievito secco con una tale espressività aromatica. Si deve quindi ricorrere ai lieviti liquidi, molto difficili da gestire quando si deve fermentare una birra molto alcolica. Ne serve tanto, vitale, fresco. Non è facile “coltivarlo” dalle piccole fiale, spesso spossate dal caldo durante il trasporto, che si acquistano dai rivenditori online. Le Tripel fatte in casa sono spesso troppo fenoliche, dominate dal chiodo di garofano nemmeno fossero una Weizen; altre sono pervase dall’acetato di isoamile, un estere che produce l’aroma fruttato tipico della banana, consentito in questo stile solo come attore secondario, non come protagonista. Infine, non secondario, c’è il problema dell’attenuazione. Le Tripel sono secche, ma questo non significa che debbano mancare di corpo. Difficile gestire questo equilibrio tra secchezza e corpo, dove entrano in gioco tantissimi fattori come polifenoli, glicerolo, acido carbonico che vanno ben oltre la mera attenuazione finale (ovvero gli zuccheri mangiati dal lievito a fine fermentazione). C’è tanto da studiare, conoscere, e soprattutto praticare.
Czech Pale Lager (BJCP 3A)
Dietro a questo nome un po’ ostico da comprendere, comparso per la prima volta nell’ultima edizione del BJCP, quella del 2015, si nasconde uno stile diffusissimo e molto conosciuto nel mondo: la Pilsner Ceca. Da non confondere con le Pilsner scimmiottate dall’industria con i vari marchi commerciali, che della capostipite hanno poco o nulla. Non faccio nomi, ma trovate alcuni esempi classici nella descrizione delle “International Pale Lager”, stile che il BJCP ha dedicato a queste pallide discendenti della Pilsner creata per la prima volta dal birraio bavarese Josef Groll in un birrificio boemo nel non così lontano 1842.
Questo stile è difficilissimo da produrre per diverse ragioni, vediamole una per una. Anzitutto si tratta di una bassa fermentazione, ovvero di una birra fermentata con lieviti del gruppo Saccharomyces Pastorianus (o Carlsbergensis) che vanno fatti lavorare a temperature piuttosto basse: 8-11°C durante la fermentazione, che dura dalle due alle quattro settimane; intorno agli 0°C per tutto il periodo di lagerizzazione, che può andare da uno a diversi mesi. È chiaro che serve molta pazienza ma anche un frigorifero dedicato per produrre queste birre, con un buon controllo della temperatura. Non tutti gli homebrewer possono permettersi di stare dietro a un processo del genere. Se si ha un solo frigo per le fermentazioni in casa, la produzione può rimanere bloccata per mesi.
Un secondo aspetto importante in queste birre è la base maltata: le Pilsner Ceche, a differenza di quelle tedesche, sono rotonde e maltate, con sentori delicati di miele, crosta di pane, e una suggestione (quasi mistica) di caramello. Tutto ciò impiegando quasi sempre solo malto Pilsner, poco tostato e dal colore molto chiaro. In molti sostengono che sia impossibile ottenere queste particolari sfumature maltate senza passare per la decozione, un processo complesso e laborioso che prevede la bollitura, a parte, di una quota della miscela di acqua e cereali prelevata dall’ammostamento. Spesso si praticano due o anche tre decozioni, che possono allungare la giornata di cotta di diverse ore. C’è da aggiungere poi che non tutti i malti moderni si prestano bene a questo procedimento, quindi chi vuole sperimentare questo metodo deve anche conoscere bene il malto e individuare quello più adatto.
Infine, si tratta di birre delicatissime, che soffrono moltissimo il contatto con l’ossigeno: per questa ragione vengono fermentate sotto pressione, e imbottigliate o infustate con metodi particolari che mantengono la carbonazione (sviluppata naturalmente durante la produzione) e riducono a livelli infinitesimali (parti per miliardo) il contatto con l’ossigeno. Nonostante ciò, negli ultimi tempi mi è capitato di assaggiare produzioni casalinghe di altissimo livello, merito anche delle ultime evoluzioni nei sistemi casalinghi di imbottigliamento in contropressione e isobarico. E anche della consapevolezza sui temi legati all’ossidazione che si sta diffondendo in questi ultimi tempi tra gli homebrewer. C’è da essere ottimisti, decisamente.
Best Bitter (BJCP 11B)
Entriamo nel mondo inglese, dominato dalle alte fermentazioni. Rispetto alle basse, siamo già a un livello minore di difficoltà nella produzione casalinga. Tuttavia, i lieviti inglesi non sono semplicissimi da gestire, o almeno sono un po’ più rognosi di quelli più neutri americani. Le Best Bitter si posizionano su un livello di difficoltà che a prima vista può sembrare basso, ma quando si mette mano al pentolone e ci si lancia con qualche prova, ci si rende subito conto che il percorso è ricco di ostacoli.
Il lievito, dicevamo. Se da un lato c’è chi produce buone Bitter con lieviti neutri americani, il vero profilo di questo stile vuole al naso una carezza di esteri fruttati, che possono derivare sia dal lievito (mela, banana) sia dai malti (frutta rossa, frutta secca) o alcune volte da entrambi. Il grosso problema è l’intensità: troppe volte mi è capitato di assaggiare Bitter cariche di aroma di frutta matura, specialmente banana e mela, che le rendono veramente difficili da bere e molto poco allineate ai dettami dello stile. Che invece prevede un fruttato leggerissimo, quasi una suggestione, per la serie: c’è ma non saprei nemmeno dire di quale frutta si tratti. Per ottenere questo profilo aromatico bisogna conoscere molto bene il lievito con cui si sta lavorando, trovare la giusta temperatura di fermentazione, scegliere il giusto mix di malto a supporto. E anche di luppoli, ma qui la strada è più semplice perché i luppoli da aroma inglesi non sono più di tre-quattro: East Kent Goldings e Fuggle, soprattutto, ma anche Bramling Cross o Challenger.
Una vera Best Bitter viaggia intorno di 4 gradi alcolici, il che richiede molto poco malto che facilmente la fa sconfinare nel regno del “watery”. Costruire il giusto corpo, anche qui, richiede un’abilità speciale nel gestire l’attenuazione (di solito non altissima nei lieviti inglesi), il tannino dei luppoli e il dosaggio dei malti Crystal. Anche l’acqua è molto importante: chi non la modifica difficilmente riesce a ottenere un ottimo risultato. E poi, infine, ci sono quelle “puzzette” tipiche dello stile, quella carezza quasi indescrivibile e impalpabile di “straccio bagnato”, di “legno vecchio”, di “cantina” che spesso trovo nelle versioni più autentiche, spillate a pompa. Più che un vero e proprio flavour, una sensazione che ti trasporta subito al bancone tra moquette impolverata, legno antico e sbuffi di alcol.
Gueuze (BJCP 23E)
Chiudo con uno stile che non potevo non citare. Non mi dilungo più di tanto perché lo spazio è finito, ma soprattutto perché vale molto di quanto già detto per le Flanders Red: saper controllare l’acidità (in questo caso meno acetico e più lattico), avere a disposizione il giusto spazio, saper gestire il legno, la temperatura, l’umidità. Soprattutto, come nelle Flanders Red, saper dar tempo al tempo. Vi dirò, però: mi è capitato più spesso di assaggiare piacevoli Gueuze o pseudo-Lambic fatti in casa, piuttosto che una buona Flanders Red. Personalmente, penso che le Flanders Red meritino comunque il primo posto in questa classifica, ma è una mia modesta opinione.
Voi cosa ne pensate? Avete altri stili che reputate veramente difficili da riprodurre in casa?
All’inizio non avevo letto il nome dell’autore … …. Poi ho capito tutto …
Complimenti Francesco non deludi mai …
Avoja se ogni tanto deludo! Si fa quel che si può 🙂 Grazie, comunque.