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Da Unionbirrai un marchio per tutelare la birra artigianale indipendente

Unionbirrai lancia in Italia il marchio che certifica artigianalità e indipendenza del birrificio e della birra

Come saprete nel fine settimana appena concluso si è tenuta la sesta edizione di Eurhop e come sempre la manifestazione capitolina è stata il pretesto per il lancio di diversi progetti. Tra i più importanti si segnala sicuramente il nuovo marchio lanciato da Unionbirrai, finalizzato a certificare la vera indipendenza dei birrifici artigianali. Una novità annunciata qualche giorno prima del festival romano e poi presentato in quella sede sabato scorso, durante un incontro al quale hanno partecipato i rappresentanti dell’associazione, numerosi birrai italiani e altri addetti ai lavori. L’iniziativa, auspicata da molti operatori, parte da presupposti decisamente interessanti e conferma la decisa volontà di Unionbirrai di tracciare un solco sempre più evidente tra birra artigianale e birra industriale.

Lo step successivo nel perseguimento di questo obiettivo è dunque un bollino che potrà essere utilizzato da tutti i birrifici italiani che rientrano nei criteri della legge nazionale sulla birra artigianale. Il marchio comparirà sulle etichette e sulle lattine, nonché – immagino – sui medaglioni delle spine ed è composto da pochi elementi, piuttosto chiari: la scritta “indipendente artigianale”, che racchiude i due concetti chiave dell’iniziativa; l’immagine stilizzata di un tino per la produzione, con il quale si circoscrive il messaggio; il claim “una garanzia Unionbirrai”, che assicura che la certificazione arriva da un’importante associazione di categoria. Giustamente il marchio è privo di fronzoli e mostra un’impostazione “neutra”, dovendosi adattare a un’infinità varietà di contesti grafici.

Possiamo affermare che la novità a firma Unionbirrai rappresenta un atto dovuto, naturale conseguenza non solo dell’invasione dell’industria nel comparto craft, ma soprattutto dei continui tentativi delle multinazionali di creare confusione tra i consumatori: ormai sono tantissimi i casi di produzioni industriali spacciate per artigianali, così come non si contano più tutte quelle etichette crafty che sfruttano il linguaggio tipico dei microbirrifici. Il bollino, quindi, non serve solo a differenziare nettamente i due mondi, ma anche a offrire ai consumatori uno strumento per individuare i veri birrifici italiani indipendenti.

Un aspetto interessante che ho notato durante la presentazione del progetto è l’approccio piuttosto aggressivo di Unionbirrai, che non si è fatta problemi a utilizzare un linguaggio diretto per rivendicare le differenze tra birra artigianale e industriale. Sul retro dei volantini distribuiti a Eurhop, ad esempio, si faceva espressa menzione dei quattro birrifici italiani ex artigianali (Birra del Borgo, Ducato, Birradamare, Hibu) spiegando quando e perché hanno perso il loro status di produttori indipendenti. Questa “black list” sarà presente anche su un sito web dedicato all’intera iniziativa, rappresentando il primo passo per quell’osservatorio permanente in stile Brewers Association che ritengo molto utile e che avevo già invocato in passato.

L’impressione dunque è che Unionbirrai si sia gettata con il giusto piglio in questo progetto, aspetto confermato dalla scelta di affidare lo sviluppo creativo del marchio e le varie possibilità di adattamento grafico a un’agenzia specializzata in materia – l’italo-inglese ByVolume, già autrice, tra le altre, delle etichette di Brewfist e Hammer. A mio parere il punto nevralgico dell’intera iniziativa risiede nelle strategie di comunicazione che saranno messe a punto dall’associazione: poiché l’obiettivo è di sensibilizzare l’opinione pubblica e l’ampia base di potenziali acquirenti, è fondamentale che il messaggio si diffonda ben oltre i confini della ristretta cerchia degli operatori del settore. Il rischio, in caso contrario, è che un’altra valida idea non produca frutti per l’incapacità di comunicare se stessa alla massa di consumatori.

Il bollino sarà utilizzabile gratuitamente da tutti i birrifici associati a Unionbirrai e a pagamento per gli altri produttori indipendenti che ne faranno richiesta. L’associazione ha in programma di monitorare costantemente lo stato dei vari produttori per assicurarsi che l’uso del marchio sia in linea con i criteri del disciplinare. Sebbene abbia definito questa iniziativa un atto dovuto, è importante sottolineare che l’Italia è tra i pochi paesi che prevedono uno strumento del genere. Come spiega Vittorio Ferraris, Direttore Generale di Unionbirrai:

Siamo totalmente allineati con gli altri paesi che già hanno in essere questa iniziativa, come USA, UK, Australia, Francia e Irlanda, in quanto l’indipendenza è il vero segno distintivo della vere birre artigianali italiane. […] L’attività di UB nella formazione di una associazione Europea, notizia di questi giorni, rafforza e sottolinea come questo fenomeno globale, vada tutelato in armonia con gli altri pasei dell’UE e non solo.

L’attuale fase storica del movimento craft internazionale rende il progetto di Unionbirrai una novità estremamente importante per la realtà italiana. La speranza è che possa svilupparsi come auspicato dai suoi ideatori e come dovrebbero sperare tutti coloro che hanno a cuore i destini dei nostri microbirrifici. Il primo seme è stato piantato, ora è importante che seguano interventi di sviluppo efficaci.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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33 Commenti

  1. Al solito non si parla di qualità nella certificazione della birra artigianale.

  2. perchè nel vino si certifica la qualità??? ma dove? la qualità è un dato soggettivo e quindi di per se non certificabile. Piuttosto nel vino ci sono disciplinari chiari perchè basati su dati di fatto oggettivi, tipo zone di produzione, rese ad ettaro, anni di invecchiamento, cosa si può o non si può utilizzare, cose verificabili. La commissione di assaggio (di alcune ne faccio parte anche io) delle DOCG serve a certificare il rispetto dei requisiti previsti dal disciplinare non la qualità.
    nella birra invece “non si può microfiltrare” che è come mettere un cartello in autostrada con scritto “vietato andare troppo forte” oppure produzione max 200.000 hl altro cartello con scritto “velocità max 400 km/h” ed unionbirrai non mi pare abbia preso posizione su questa follia senza senso, solo sul bollino per raccattare un po di soldi
    Ma poi sta cosa dell’indipendenza davvero non la capisco, Gucci non fa più abiti ed accessori di qualità eccezionale perchè acquistata dalla Kering francese? e la Lamborghini produce auto mediocri perchè di proprietà Audi? ma che siamo matti.
    Piuttosto vogliamo creare una commissione d’assaggio anche per la birra? io ne sarei felice e tu avresti certamente tutte le carte in regola per farne parte, fosse solo per definire la correttezza del prodotto, intesa come assenza di difetti. Ma questo nessuno lo vuole davvero in quanto ci sono una valanga di birrifici artigianali piccoli, indipendenti e che non microfiltrano ma che su tre bottiglie prodotte una è quasi decente una puzza e la terza ti fa l’effetto geyser islandese.

    P.S. spero tu non la prenda sul personale, in quanto trovo molto interessante quello che scrivi e ti stimo per come “combatti” per quello che pensi.

    • Intendevo che nel vino si certificano quelle cose che tu hai scritto, criteri che chiaramente alla birra non sono applicabili (per fortuna aggiungerei).
      Il panel di assaggio non ha senso per tutta una serie di motivi, che possono piacerti o meno ma che sono alla base della birra artigianale (per fortuna, aggiungerei).
      L’unica soluzione è rispettare regole oggettive, come quelle delle dimensioni e delle tecniche produttive (questo senza dimenticare la stupidaggine sulla microfiltrazione, che senza specifiche lascia il tempo che trova)

      Sul resto pensala come vuoi, ma il passato parla chiaro: quasi sempre quando un birrificio è stato acquistato da un’industria, nel medio e lungo termine le sue birre sono tutte peggiorate.

      • Sono assolutamente d’accordo con Lamberto. Sarebbe una cosa sensata e fattibilissima certificare la provenienza e l’attinenza delle materie prime e dei metodi adottati nella produzione per una determinata birra. A questo punto l’assaggio sarebbe superfluo.

        Se produci con le corrette materie prime e con le procedure previste per brassare un determinato stile, la tua birra sarà ritenuta di qualità, oltre la soggettività del gusto personale.

        Ciò eviterebbe anche tante amenità a cui spesso assistiamo, ma sopratutto eviterebbe alle persone, che si avvicinano per la prima volta alla birra artigianale di partire col piede sbagliato assaggiando Una mappazza, che li porta a mettere la birra artigianale in toto nel dimenticatoio.

        Sarebbe un’importante tutela sia per i consumatori, sia sopratutto per i birrai che lavorano bene e subiscono una penalizzazione di categoria, per altri che bene non lavorano e sarebbe certamente più utile del bollino di Unionbirrai che certifica l’indipendenza.

        • Quali sarebbero le corrette materie prime?
          Ma soprattutto, quali le procedure previste per brassare un determinato stile?

          • Gli stili nascono direttamente dalla disponibilità di materie prime autoctone, in una determinata zona, che è appunto la zona di nascita dello stile. La descrizione di ogni stile comprende determinate materie prime e ben specificate procedure, trovate e perfezionate dagli inventori dello stile stesso. Sono cose risapute che si trovano su moltissimi libri.

          • Quindi qualsiasi American Pale Ale non è di qualità, perché invece di usare luppoli inglesi utilizza luppoli americani.
            Oppure tutte le APA hanno fatto schifo finché non è stato codificato dal BJCP lo stile APA? Da un giorno all’altra migliaia di birre non buone che diventano buone.

          • Quindi secondo te APA e IPA sono la stessa cosa? Le IPA prevedono degli ingredienti e le APA altri. L’errore sta quando leggi IPA e bevi APA. Ciò non significa che no siano buone, significa che stanno dichiarando una cosa e ne fanno un’altra. Se no poi succede che uno pensa che le IPA siano quelle che fanno la maggior parte dei birrifici e quando bevono una vera IPA, ti dicono che non è una IPA. Un po di serietà la trovi fuori luogo in questo settore?

          • Ma chi ha parlato di IPA? La contrapposizione semmai era tra APA e Pale Ale.

          • Sostituisci IPA con Pale Ale cambia poco. Gli stili che vengono solitamente confusi tra loro però sono IPA e APA.

          • E cosa c’entra che vengono confusi? Si parlava di tutt’altro.
            Ripeto: le APA fanno tutte schifo perché usano luppoli americani invece di luppoli inglesi?

          • Perché dovrebbero? In una american pale ale è normale che ci siano luppoli americani, così come è normale che in una pale ale ci siano quelli inglesi. Lo strano sarebbe farle con luppoli tedeschi. Una pale ale fatta in America, con gli ingredienti originali, diventa APA?

          • Ricapitoliamo:
            – Affermi che la qualità dipende da vari fattori, come l’uso delle corrette materie prime rispetto allo stile di riferimento
            – Ti ho fatto notare che gli stili possono subire influenze: le APA esistono perché è stato preso il modello delle Pale Ale anglosassoni e riformulato con ingredienti locali americani
            – Hai confermato quello che ho scritto

          • Scusa Andrea ma secondo te le pale ale e le american pale ale sono lo stesso stile? Essendo stili diversi è logico che abbiano materie prime diverse, se uno stile deriva da un altro, ma prevede l’impiego di materie prime diverse, diventando appunto uno stile diverso da quello d’origine, la tua domanda iniziale qual’è?

          • Ma chi è che definisce cos’è uno stile e cosa no? Provo a rispiegare il concetto: se domani cominciano a fare Pale Ale con luppolo italiano, faranno tutte schifo finché il BJCP (o chi per lui) codificherà lo stile Italian Pale Ale?

        • Esiste una tradizione e gli stili non nascono da un giorno all’altro solo perché cambi luppolo. Se fai una Pale Ale con luppolo Italiano e sei onesto, non la chiami Pale Ale, Agostino docet. La bravura di un birraio va misurata in un range ristretto dettato da uno stile e dai suoi ingredienti, il vale tutto non è brassare.

          • Hai parlato di qualità, non di onestà. Sono due cose ben diverse

          • Io di entrambe. Difficile che un disonesto crei un prodotto di qualità.

          • Non di entrambe, ma solo di qualità. È scritto qui sopra

          • Ti lascio volentieri l’ultima parola, mi sembri più interessato a quella che a fare chiarezza.

          • Il primo a non fare chiarezza sei tu, mettendo in mezzo cose a vanvera e poi, non riuscendo a venirne fuori, troncando il discorso con il riferimento all'”ultima parola”. Bene così, ciao.

          • Ci sono degli aspetti ai quali ci si può certamente ispirare nella certificazione della qualità del Vino, ma nella fattispecie i criteri andrebbero rivisitati e riadatti per la Birra. Ha ragione Andrea. Nella birra si parla di “stili” proprio perché la classificazione non è riconducibile all’origine geografica delle materie prime, e nemmeno ad elementi distintivi tradizionali del processo.

            – Weyerman ha nella sua gamma il Pils Eraclea, prodotto con orzo italiano, e utilizzato con entusiasmo da centinaia di birrifici tedeschi che fanno Pilsner super tradizionali. Alcune addirittura delle più iconiche. Non sono pils?

            – Italian Hop Company porta avanti a Modena un progetto di ricerca e sviluppo, oltre che di coltivazione, eccellente. Tutte le birre che fanno uso dei loro luppoli non sono riconducibili agli stili indicati secondo un ipotetico criterio di certificazione della qualità? dobbiamo inventarci solo stili nuovi autoctoni italiani per utilizzarli degnamente?

            – quando parlate di processo poi il ginepraio diventa ancora più folle: quale sarebbe la sala cottura tradizionale adatta a produrre una bitter? E una saison? avete idea di quanto poco ci sia di canonizzabile in queste realtà di tradizione a dir poco secolare?

            potrei andare avanti ore..

            Di contro, dato un qualsivoglia disciplinare, vi assicuro che qualunque grande industria ci metterebbe quattro secondi a rispettarlo, con materie prime compatibili ma scarse, risultati conformi ma scadenti, e guadagnarsi l’approvazione. Al contrario di eccellenti APA con mandarina bavaria, o Helles con luppoli sloveni. Se adottate la stessa impostazione valida per il Barolo sbagliate di grosso.

          • @ Biffero è chiaro che entrambi ignorate cosa sia il terroir, cosa siano gli stili e le tradizioni. Gli stili nascono in zone geografiche specifiche e così pure le materie prime che li contraddistinguono. Chiaro che una volta le materie prime erano locali, come locali erano gli stili, oggi puoi benissimo brassare una qualsiasi stile, anche agli antipodi del mondo, ma ciò non toglie che per farli in modo aderente allo stile bisogna impiegare quelle materie prime con provenienza certificata. Scrivi di luppoli Italiani, se coltivi un Hallertau in Italia è come se coltivassi la Barbera in Danimarca. Puoi farlo ma poi avrai il coraggio di chiamare quel vino: Barbera? In campo enologico queste cose sono risapute e nessuno si sognerebbe di negare l’evidenza, nella birra artigianale vige il far West, perché le professionalità nei due settori sono quanto di più distante possa esistere. Per quanto riguarda l’industria è chiaro che non hai idea di come produca un industria in Italia, se no non avresti scritto ciò che hai scritto. In Italia una qualsiasi industria produce una Lager in meno di 15 giorni.

  3. Ciao, ma se un birrificio già rispetta la normativa in vigore sulla produzione artigianale, come mai deve pagare per affermare ancora una volta ciò? E poi ancora una cosa, i beer firm, quelli veri, quelli con esperti alle spalle di una ricetta, ancora una volta verranno penalizzati?

    • Il bollino è un’iniziativa di un’associazione, che ha investito per svilupparlo. Se non sei associato, è lecito che l’associazione chieda un compenso per il suo utilizzo. Comunque puoi sempre scrivere “birra artigianale” in etichetta…

      Le beer firm non possono usare il bollino

  4. Ottima notizia! Ci voleva. Non un bollino di (presunta) qualità ma semplicemente una certificazione che garantisce al consumatore che i soldi che spende non andranno a multinazionali.

    • Quindi tu non acquisti da Amazon, non fai benzina alla Esso, non indossi le Nike o le Adidas, non bevi Coca Cola, non guardi Sky, non stai scrivendo su un computer con sistema operativo della Microsoft o di Apple…………..

      • Ma certo (a parte bere Coca Cola) ma non è questo il punto. IO, se voglio le Nike, prendo le Nike, se voglio una birra ARTIGIANALE, la voglio fatta da un ARTIGIANO con metodi artigianali e da un classico medio/piccolo birrificio. Lo voglio IO. Punto.
        IO non voglio dare i miei soldi ad una multinazionale DELLA BIRRA. In particolar modo quando cerca di nascondersi dietro false etichette.

        • Posizione rispettabilissima, io quando bevo una birra voglio che sia buona, non mi interessa se i soldi vanno a Tizio o a Caio e non mi informo sul numero o sull’identità dei soci. Questioni di priorità.

  5. la discussione sugli stili nel panorama odierno delle birre artigianali lascia un po il tempo che trova (ad esempio ad eurhops 2 birre su 3 erano davvero poco catalogabili in uno stile preciso) ed il creare per forza nuovi e fantasiosi “stili birrai” mi pare inutile e triste. Ad esempio se qualcuno producesse una nera con 10% alc. molto luppolata e con l’aggiunta di lamponi, cacao e lattosio che stile sarebbe? double imperial dark cioccolate indian milk framboise? se vi piace così…
    per il discorso invece che riguarda una “certificazione” della birra artigianale non è affatto vero che l’unica regola oggettiva da rispettare sia la dimensione del birrificio, anzi, alcuni esempi:
    – filtrazione vietata sotto x micron
    – vietato l’uso di starti filtranti contenenti farine fossili
    – vietato pastorizzare
    – vietato l’uso di estratti di malto oltre x%
    – periodo minimo dall’imbottigliamento alla vendita di x giorni
    e mille altre, il problema vero è volerlo.
    Per il fatto che cit. “quasi sempre quando un birrificio è stato acquistato da un’industria, nel medio e lungo termine le sue birre sono tutte peggiorate.” non sono per niente d’accordo, casomai è il passare da 5.000 a 50.000 hl annui che incide, e nemmeno sempre in negativo, cosa che però è del tutto slegata dall’essere stati acquisiti o meno, o comunque non ne si ha la certezza.

    • Per favore restiamo a quanto scritto. Non ho mai detto che l’unica regola oggettiva da rispettare è la dimensione, ma che non ha senso affidarsi a regole non oggettive (la “qualità” di un panel di esperti). I tuoi criteri sono tutti oggettivi e quindi leciti.

      Sugli esiti dell’acquisto da parte delle multinazionali ovviamente non puoi avere la certezza né in un senso né nell’altro, però sappiamo tutti in che condizioni era il mercato della birra fino a 40 anni fa. Nel dubbio, permetti che i precedenti non mi facciano essere ottimista?

  6. Trovo stupido discriminare le beerfirm. Queste vengono prodotte dagli stessi birrifici che producono birre artigianali che possono fregiarsi del marchio; quindi significa che ciò che producono i birrifici per terzi è di minore qualità? La definizione di birra artigianale viene comunque rispettata..
    Senza le beer firm molti piccoli birrifici avrebbero difficoltà a campare e avrebbe avuto senso dare la possibilità anche a queste di utilizzare il marchio proprio per rinforzare l’idea che anche le beerfirm sono ottimi prodotti artigianali!

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