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Additivi nella birra fatta in casa: eresia assoluta o pratica accettabile?

Navigando tra i vari forum e gruppi di homebrewer, mi capita ogni tanto di imbattermi nel classico personaggio “integralista” che si oppone all’utilizzo di qualsiasi additivo nel processo di produzione casalingo di birra. Se concettualmente posso essere vicino ad alcune posizioni per quanto riguarda l’approccio generale alla produzione di cibi e bevande, specialmente a livello di hobby, dall’altro ha senso evidenziare che la parola “additivo” in sé non ha necessariamente un’accezione negativa. È chiaro che rimanda a un contesto industriale dove regna l’iper-lavorazione degli ingredienti al fine di ottimizzare resa e costi, spesso associata a una irreversibile denaturazione o peggioramento delle qualità nutritive degli alimenti, ma non sempre è così.
Nel processo di produzione della birra si possono utilizzare decine di additivi diversi, alcuni meno invasivi, altri volti a una ingegnerizzazione più spinta del processo produttivo. Ricordo lo sguardo che mi lanciò Agostino Arioli durante una recente visita al Birrificio Italiano, quando gli chiesi se in birrificio utilizzassero acqua osmotizzata per produrre la Tipopils: “Acqua osmotizzata? No, non applichiamo nessun processo industriale né usiamo additivi per la produzione delle nostre birre”. Ho pensato subito al mio impiantino a osmosi inversa con cui filtro la durissima acqua di Roma quando produco una bassa fermentazione chiara, e mi è scappato un sorriso misto a un filo di senso di colpa.


Ma gli additivi sono davvero il male? Si possono usare in sicurezza in casa? Davvero snaturano il prodotto che amiamo e alla cui produzione dedichiamo tanto tempo e cure? Vediamo quali sono i principali additivi che si possono impiegare – e che spesso vengono impiegati – nel processo di produzione di birra casalingo e proviamo a ragionare sulla loro “naturalità”.

Sali per l’acqua di produzione

Partiamo dall’acqua. È piuttosto noto che i sali presenti nell’acqua influenzano, a volte in modo significativo, il profilo organolettico della birra. Per questa ragione, nel passato, alcuni stili si sono diffusi maggiormente in determinate parti del mondo, proprio dove il profilo minerale dell’acqua rendeva più semplice e appetibile, da un punto di vista organolettico, un certo tipo di produzione. È stato così per le birre scure a Londra, dove l’acqua era ricca di bicarbonati; per le Burton Ale, progenitrici delle IPA, a Burton-Upon-Trent, dove l’acqua era ricchissima di solfati che accentuavano l’amaro ma aveva un livello di calcio e bicarbonati accettabile per produrre birre ambrate; per le Pilsner, che dalla Boemia nel 1842 hanno poi dominato il mondo, partendo da un’acqua leggerissima che rendeva possibile la produzione di una birra chiara pesantemente luppolata senza generare un amaro tagliente.

Non esiste tuttavia oggi praticamente nessun birrificio che non faccia utilizzo di additivi per la modifica dell’acqua. Possiamo definire additivi sali come il cloruro di calcio o il solfato di calcio (anche noto come Gypsum)? Volendo sì, in quanto si aggiungono all’acqua durante la produzione e li troviamo poi nella birra finita. Tuttavia si tratta di sali che in concentrazioni diverse sono già presenti in qualsiasi acqua di produzione. Sali che non necessitano di alcuna indicazione in etichetta quando utilizzati. Sarebbe come definire il sale da cucina un “additivo” piuttosto che un “ingrediente”.

Sull’osmosi inversa, che altro non è che la rimozione quasi totale dei sali dall’acqua di partenza, ci sono opinioni contrastanti. Al di là dello spreco di acqua che il processo di purificazione genera e del correlato discorso ecologista (del tutto condivisibile in principio), non riesco sinceramente a vedere in questo passaggio un elemento negativo o di “eccessiva lavorazione”. Di certo non parliamo di additivi, in quanto l’osmosi non aggiunge ma toglie, tuttavia qualcuno storce ugualmente il naso. Io la uso con soddisfazione a casa, anche perché altrimenti non potrei nemmeno pensare di provare a produrre una Helles o una Pilsner Ceca con l’acqua di Roma. Devo dire che non la uso sempre, o la uso miscelata all’acqua del rubinetto per via dell’eccessivo spreco e anche perché non è necessario partire sempre da un’acqua quasi priva di sali per produrre buona birra. Spesso è sufficiente un’aggiunta di acido per risolvere la situazione. Ma gli acidi possiamo considerarli additivi?

Acidi

Io spremo il limone per acidificare il mash, non aggiungo schifezze nella mia birra (cit.)

L’aggiunta di acido, qualunque esso sia, è fondamentale nel processo produttivo. A prescindere dall’acqua utilizzata, nella maggior parte dei casi (specialmente se si producono birre chiare o ambrate) il pH durante l’ammostamento non scenderà da solo al valore ottimale per il funzionamento degli enzimi che devono trasformare gli amidi dei malti in zuccheri. E se questo non avviene, la birra non verrà bene, per diverse ragioni. L’aggiunta di acido in mash e nell’acqua di sparging è un approccio diffuso nella quasi totalità dei birrifici artigianali (scrivo “quasi” solo per un eccesso di prudenza statistica). Gli acidi utilizzati possono essere di origine biologica o prodotti per sintesi chimica, ma un acido lattico prodotto per via chimica (e non biologica a partire da organismi viventi come lieviti o batteri) sempre acido lattico rimane. Discorso simile per altri acidi organici che possono essere impiegati nel processo di produzione, come l’acido citrico (non il limone, che contiene anche altro oltre all’acido citrico) o l’acido tartarico. Gli acidi inorganici (come l’acido fosforico), impiegati più a livello industriale che casalingo, possono essere considerati meno “naturali” perché non originano da materiale organico, ma ciò non significa che siano necessariamente dannosi per l’organismo. L’acido fosforico è presente in molte bevande ed è riconosciuto come additivo alimentare in tutto il mondo.

Gli unici birrifici che non aggiungono acidi li possiamo trovare in Germania. Sono i fautori del vecchio Reinheitsgebot, la legge sulla purezza Bavarese del 1516, che vietava l’utilizzo di qualsiasi ingrediente che non fosse acqua, malto, luppolo (e solo in seguito lievito) nella produzione di birra. Come fanno? Utilizzano il sauermalt (o acidulated malt), il malto acidificato. Cambia qualcosa? Probabilmente no. Sempre di acido lattico stiamo parlando (spesso ricavato per via biologica e aggiunto al malto).

Che male c’è a usare il limone, come sento spesso dire agli homebrewer più integralisti? Nulla, per carità. Solo che il limone, o l’arancia, o l’aceto, non contengono solo acido ma anche elementi che impattano – e non poco – sul profilo organolettico della birra, anche in quantità ridotte. Se un po’ di limone può integrarsi bene nel profilo organolettico di una Blanche, lo vedo meno adatto per la produzione di una delicatissima Helles. Evitiamo.
Mi sento quindi di sdoganare senza problemi l’utilizzo di acidi in produzione quali lattico, citrico, fosforico. Nelle dosi necessarie per la produzione di birra non devono nemmeno essere indicati in etichetta. Possiamo dormire sonni tranquilli.

Chiarificanti

Facciamo un passo oltre, addentrandoci nel regno degli additivi generalmente più cari all’industria: i chiarificanti. Questi additivi possono essere impiegati in diverse fasi del processo produttivo, servono principalmente per facilitare la rimozione dalla birra di proteine, polifenoli e lievito. Tre elementi che generano anzitutto torbidità, ma che nel lungo periodo possono portare a instabilità organolettica. Ovviamente ci sono eccezioni, ovvero birre in cui questi elementi in sospensione costituiscono una parte essenziale del profilo organolettico, ad esempio stili come Weizen, New England IPA o Blanche. Ma nella maggior parte dei casi, la limpidezza (o una quasi-limpidezza) è un elemento ricercato nella birra, anche a livello di produzione artigianale o casalinga. L’occhio vuole la sua parte, ma non solo l’occhio. L’effetto, come dice il professor Charlie Bamforth dell’università di Davis in California (ora in pensione) è importante anche sulla stabilità organolettica nel lungo periodo.

Servono davvero questi chiarificanti? A differenza dell’utilizzo di acido lattico e sali vari, in questo caso la risposta potrebbe essere negativa. Cioè: servono, o meglio, è indicato “pulire” la birra per le ragioni sopra citate, ma lo stesso obiettivo di pulizia (visiva e organolettica) si può quasi sempre raggiungere senza l’utilizzo di chiarificanti. Come? Semplicemente con un solido processo di produzione del mosto a caldo: una buona filtrazione e rimozione del trub, ovvero del deposito di proteine e luppolo a fine bollitura. Ma anche, e più incisivamente, con una lunga maturazione a freddo dopo la fermentazione. Quanto dovrebbe durare questa maturazione dipende dalla tipologia di birra, ma l’intervallo temporale va da qualche settimana a qualche mese. I risultati arrivano, ma ci vuole pazienza.

In questo senso gli additivi chiarificanti non sono necessari, ma aiutano a velocizzare la precipitazione dei composti che generano torbidità. I chiarificanti possono aiutare a ridurre questo lasso di tempo, il che può essere comodo in alcuni ambiti ma rappresenta senza dubbio una “scorciatoia”. Considerando che alcuni chiarificanti derivano da sostanze animali (la gelatina dal maiale e la colla di pesce dalla vescica natatoria di alcuni pesci) o da processi chimici (il PVPP, che aiuta il deposito dei tannini, è un polimero plastico) è chiaro che la loro applicazione risulti in alcuni casi controversa. Ce ne sono anche di più “naturali” (come ad esempio l’Irish Moss, carragenina estratta da alghe irlandesi) ma l’efficacia è meno lampante.

Diversi birrifici utilizzano additivi chiarificanti di varia natura, ma alcuni – e non sono pochi – dichiarano apertamente di non impiegarli in alcun modo durante il processo produttivo, dedicando a ogni birra il giusto tempo per stabilizzarla da un punto di vista visivo e organolettico. C’è da dire che gli additivi chiarificanti, a differenza dell’acido lattico e dei sali, non arrivano nel prodotto finito. Per questa ragione vengono chiamati anche coadiuvanti di processo. Ho provato a utilizzarli in casa ma alla fine ho desistito: non ho ottenuto risultati sorprendenti e ho preferito investire in un nuovo frigo e attese al freddo più lunghe, una volta che l’ansia da homebrewer alle prime armi che vuole stappare le bottiglie quanto prima (ampiamente comprensibile) mi è passata. Utilizzo ancora le alghe irlandesi a fine bollitura, ma non sono nemmeno così convinto che facciano una gran differenza.

Antiossidanti

Che l’ossidazione sia deleteria per la birra è ormai pacifico. L’azione dell’ossigeno (in particolare dei suoi radicali liberi) su diverse sostanze che sono naturalmente presenti nella birra ha nella maggior parte dei casi un impatto negativo: il profilo organolettico si affievolisce, cambia (raramente in meglio), la birra si scurisce, assumendo un colore spento con venature grigiastre o rossastre. Questi effetti sono più evidenti nelle tanto amate birre iper luppolate, ma anche le basse fermentazioni non ne escono benissimo se incamerano ossigeno durante il processo di produzione.

Gli antiossidanti si usano da tempo immemore per la conservazione di cibi e bevande. Li troviamo in moltissimi cibi che ingeriamo, specialmente in quelli industriali, e portano nomi che a volte spaventano come acido ascorbico, solfiti o anidride solforosa. Ce ne sono molti altri, più o meno efficaci, e sono antiossidanti anche molte sostanze presenti naturalmente nei cibi come le antocianine nei mirtilli. Antiossidanti come l’anidride solforosa vengono impiegati da sempre nel mondo del vino. Arrivano solitamente in concentrazioni non trascurabili nel prodotto finito che poi beviamo. Alcuni composti antiossidanti, come l’anidride solforosa stessa, sono prodotti dal lievito durante qualsiasi fermentazione, in concentrazioni variabili.

L’anidride solforosa è molto efficace come antiossidante, ragion per cui il mondo industriale ne fa un largo impiego. I suoi effetti sull’organismo possono essere negativi se assunta in continuità per lunghi periodi e può creare seri problemi a persone allergiche. Per questa ragione la legge obbliga i produttori a utilizzare in etichetta l’indicazione “contiene solfiti” se la concentrazione nel prodotto finito supera le 10 ppm, ponendo dei limiti ai valori massimi (nel vino il limite è di 150 ppm per i vini rossi e 200 ppm per i bianchi, per capirci). Nella birra, sia industriale che artigianale, non si fa largo utilizzo di anidride solforosa, tant’è che è raro trovare l’indicazione “contiene solfiti” nelle birre sia industriali che artigianali. Tuttavia, negli ultimi tempi, si sta diffondendo l’utilizzo di antiossidanti anche a livello artigianale e perfino casalingo.

Servono davvero questi antiossidanti nella birra? Ad aiutare aiutano, non c’è dubbio. Molti birrifici utilizzano prodotti che liberano anidride solforosa in fase di ammostamento e imbottigliamento, per ridurre l’ossidazione. I dosaggi sono tuttavia molto ridotti, le 10 ppm nel prodotto finito non vengono generalmente superate. Il che evita di dover mettere in etichetta la scomoda frase “contiene solfiti” che di per sé, va detto, non è un problema se i limiti di legge vengono rispettati. Molto probabile faccia molto più male l’alcol, a parità di litri di birra ingeriti. A meno che non ci siano nel soggetto che beve allergie ai solfiti – in questo caso possono esserci reazioni serie, quindi è bene fare attenzione.

Incuriosito dal tema, nell’ultima IPA che ho fatto ho sperimentato l’aggiunta di metabisolfito di potassio (che libera anidride solforosa) in fase di dry hopping. Dai miei calcoli, sicuramente approssimativi, sono andato oltre il limite delle 10 ppm, ma ben al di sotto delle concentrazioni consentite ad esempio nel vino. Devo dire che la birra è venuta molto bene, aveva una freschezza luppolata che raramente ho riscontrato nelle mie produzioni casalinghe, nonostante siano comunque migliorate negli ultimi anni per via dell’applicazione rigorosa della contropressione e dell’imbottigliamento in isobarico. Esistono sul tema correnti di pensiero che sostengono addirittura che non sia possibile produrre una vera Helles tedesca senza l’utilizzo di solfiti nel processo di produzione, ma siamo a teorizzazioni estreme.

Ovviamente ho ricevuto diversi commenti del tipo “non aggiungo schifezze alla mia birra” ma come al solito dobbiamo contestualizzare. Al di là delle potenziali allergie che qualcuno può avere – e a questo bisogna prestare attenzione quando si fa assaggiare la birra – è davvero un dramma rubare qualche “trucco” all’industria per migliorare le proprie produzioni? Cosa ne pensate? Io non sono chiuso in assoluto sul tema, sebbene continui a considerare la produzione casalinga un hobby che non ha senso in assoluto portare ai livelli dell’industria, ci mancherebbe altro. Ma se si riesce a migliorare la qualità della birra senza eccessivi investimenti o sforzi, perché no?

L'autore: Francesco Antonelli

Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. Da febbraio 2014 è Degustatore Professionista dell'Associazione Degustatori di Birra.

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