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Tutte le variazioni di IPA: quando hanno senso e quando meno

Poco meno di un mese fa vi parlai del tentativo in atto negli Stati Uniti di definire un nuovo stile birrario, quello delle Vermont Ipa. C’è un altro termine con il quale i sostenitori di questa iniziativa identificano tali birre e cioè Cloudy Ipa, che restituisce meglio la loro caratteristica primaria: una netta opalescenza, che anticipa un contributo del lievito diverso dalle classiche American Ipa. Come capirete però l’elemento di distinzione è abbastanza debole, al punto che gli stessi produttori di potenziali Vermont Ipa si mostrano diffidenti verso l’istituzione di questo nuovo stile. In altre parole è un tentativo abbastanza velleitario, figlio della spasmodica ricerca della novità a tutti i costi e di quel fenomeno di “ipaizzazione” che è in voga negli USA. E che purtroppo ha contagiato anche il BJCP, che nella ultima revisione delle sue guidelines ha aumentato considerevolmente i sottostili di IPA.

Non sempre queste novità sono apparse particolarmente ispirate. Può dunque essere interessante riassumere le diverse varianti di IPA riconosciute (in maniera più o meno ufficiale) dalla comunità internazionale e capire quali di esse hanno realmente senso di esistere. In diversi casi ci faremo aiutare proprio dal BJCP, scoprendo che spesso le differenze sono minime e capaci di generare non poca confusione.

American Ipa

Questo stile rappresenta la via americana alle IPA inglesi e reinterpreta il modello di riferimento secondo i gusti e le consuetudini del mercato statunitense. Come riporta il BJCP, comparate con le sorelle anglosassoni, le American Ipa presentano un carattere meno “british” in tutte le loro componenti: note di caramello, crosta di pane e tostato decisamente più leggere, impiego di luppoli americani o “esotici”, esteri contenuti. Inoltre hanno un corpo più leggero, una gradazione alcolica appena maggiore e sono più focalizzate sul luppolo. Naturalmente averle codificate è stato a un certo punto un passaggio obbligato, poiché le differenze con le English Ipa sono profonde, non solo da un punto di vista organolettico.

Double Ipa

Nate negli anni ’90 ma diventate un fenomeno di successo nella decade successiva, le Double Ipa sono la risposta di birrifici americani alla crescente richiesta del mercato di qualcosa che andasse oltre i confini delle (American) Ipa. Sono quindi versioni più muscolari delle loro sorelle maggiori, aspetto che si traduce in un contenuto alcolico maggiore e in una luppolatura più generosa. A differenza di quello che molti pensano (e di non poche interpretazioni europee) la loro parte maltata non è particolarmente accentuata e serve semplicemente come “tappeto” per sostenere e valorizzare la potenza del luppolo. Nelle loro migliori interpretazioni, sono delle birre fenomenali e capaci di esprimere al massimo le capacità del birraio.

West Coast Ipa

Curiosamente il BJCP sembra ignorare questa variazione regionale di American Ipa, nonostante il suo nome abbia varcato i confini degli Stati Uniti caricandosi di un’aura quasi leggendaria. Queste birre si differenziano dallo stile di discendenza per la potenza della parte luppolata, l’assenza di malti caramello e una decisa secchezza. L’opportunità di definirle un sottostile autonomo è argomento di discussione nel panorama internazionale praticamente da sempre.

Black Ipa

Con le IPA “scure” entriamo nell’universo di quelle che il BJCP definisce “Specialty Ipa”, cioè birre luppolate che presentano alcune caratteristiche peculiari. L’istituzione di questa categoria ha esposto l’ente internazionale a diverse critiche, perché ha contribuito a parcellizzare ulteriormente gli stili birrari e a moltiplicare le variazioni di IPA. Nello specifico a livello aromatico le Black Ipa sono assimilabili alle American Ipa, se non per il colore tendente al nero che però non deve essere accompagnato, se non in minima parte, dalle classiche note dei malti scuri (tostato, torrefatto, cioccolato, ecc.). Nate come “gioco” tra gli homebrewers americani, sono state adottate da diversi birrifici locali prima di trovare successo anche fuori dagli Stati Uniti. In realtà la loro fama mi sembra in drastico calo, anche per le difficoltà nel confrontarsi con uno stile che non consente margini di errore. Aveva senso elevarle a “stile” ufficiale? Forse no.

Brown Ipa

La famiglia delle Specialty Ipa è per gran parte formata da variazioni cromatiche delle IPA, anche quando la loro definizione appare piuttosto inconsistente. È il caso, secondo me, delle Brown Ipa, che il BJCP definisce come delle American Ipa con un carattere caramellato e maltato simile alle American Brown Ale. La verità è che trovare differenze tra Brown IPA e American Brown Ale è quasi impossibile, se non per piccole variazioni a livello di alcol, amaro e contributo dei luppoli. Insomma, non abbastanza da giustificare un nuovo stile.

Red Ipa

Dal marrone passiamo al rosso, con questo sottostile che differisce dalle American Ipa per lo stesso motivo per cui le American Amber Ale sono diverse dalle American Pale Ale. In realtà cogliere questa sfumatura è piuttosto complicato e al pari delle Brown Ipa la loro istituzione secondo me lascia il tempo che trova.

White Ipa

In questo delirio di colori forse le uniche variazioni ad avere davvero senso sono le White Ipa, che differiscono già dalla presenza di una percentuale di frumento oltre al classico malto d’orzo. Sono American Ipa fruttate, speziate e rinfrescanti, una loro versione decisamente estiva e facile da bere. Altra peculiarità, che contribuisce a distinguerle dalle American Wheat, è l’impiego di lievito belga e, talvolta, di speziature da Blanche. Rispetto alle sorelle “nere”, le White Ipa mi sembra che si siano inserite meglio nel mercato italiano: probabilmente resisteranno oltre gli entusiasmi della moda del momento.

Belgian Ipa

Il BJCP inserisce tra le Specialty Ale anche l’interpretazione belga di questo stile, che si differenzia dalle sorelle inglesi e americani per diversi aspetti, in primis l’uso di lievito locale che arricchisce il profilo aromatico con sfumature fruttate (da esteri) e speziate. Secondo il BJCP possono essere considerate versioni più luppolate delle Tripel, anche se come definizione mi sembra semplicistica e fuorviante. Sebbene molte incarnazioni, soprattutto in patria, non siano particolarmente ispirate, la loro esistenza come sottostile è più che sensata.

Rye Ipa

La moda per l’impiego della segale (se non sbaglio un po’ attenuatasi negli ultimi tempi) ha portato alla definizione delle Rye Ipa. Chiaramente le differenze teorizzate sono tutte riconducibili al cereale aggiunto al malto d’orzo, ammesso che siano così evidenti da giustificare la creazione di questo sottostile. Che secondo me è un po’ azzardata.

Ipa Argenta

Da notare che nella stessa appendice delle guidelines che ospita le Italian Grape Ale sono citate anche le Ipa dell’Argentina. Sono definite come Pale Ale decisamente luppolate e amare, rinfrescanti e moderatamente forti. La chiave è nella bevibilità, ottenuta senza note aspre e con un grande equilibrio generale. Se questi dettagli non vi accendono la lampadina, allora sappiate che sono realizzate con una percentuale di frumento (fino al 15%) e con luppoli argentini, che donano un profilo aromatico caratteristico. Sono pensate sull’accostamento tra note agrumate e frumento, esattamente come accade per le Blanche.

E poi ovviamente ci sono le già citate Vermont Ipa. Cosa ne pensate di questa tendenza a “ipaizzare” qualsiasi cosa? Quali sono i sottostili di Ipa che considerate sensati e quali no?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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Un commento

  1. Nessun commento su English IPA?

    Ci sarebbe la Cascadian Dark Ale che alcuni vogliono mettere dentro le Black IPA.

    Anche io non sono d’accordo con tutte queste sottoclassifiche.

    Mi domando se il fatto di usare ingredienti locali sia la miglior maniera di dare origine a una sottoclassifica. In definitiva, mentre si tentava a fare una EngIPA con ingredienti locali ha portato alle American IPA, no?

    Poi, un altro punto di riflessione è: gli stili e sottostili dovrebbero prima di tutto aiutare al consumatore a capire cosa troverà nel bicchiere. Da qui, come accenni tu, il cambio di colore non rappresenta una variazione così importante da dedicargli un sottostile

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