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Birra artigianale in salute ma contraddittoria: i risultati del Report di Unionbirrai

Nelle scorse settimane Unionbirrai ha pubblicato una lavoro molto interessante, intitolato Report 2018 – Birra artigianale filiera italiana e mercati. Il documento, realizzato in collaborazione con l’Osservatorio Birre Artigianali (Obiart) dell’Università degli Studi di Firenze, vuole proporsi come uno strumento di studio e analisi dell’intero comparto, in grado di “restituire una valutazione approfondita e autorevole sulle caratteristiche del fenomeno e proiettare tali considerazioni nell’immediato futuro”. La prima parte si basa su numeri ufficiali che consentono di tracciare un profilo del settore e di chi vi opera, la seconda è invece l’elaborazione di dati provenienti da un’indagine diretta rivolta tanto ai birrifici quanto ai consumatori finali. I risultati sono stati presentati in anteprima un mese fa nel corso di Craft Beer Italy, ma ora è giunto il momento di analizzarli nel dettaglio esaminando il pdf redatto per l’occasione da Unionbirrai.

Il primo capitolo contestualizza il fenomeno italiano all’interno di quello internazionale, confermando che la situazione che stiamo vivendo nel nostro paese è assolutamente peculiare. L’Italia è infatti la quarta nazione in Europa per numero di birrifici (757), preceduta nell’ordine da Regno Unito (2.250), Germania (1.408) e Francia (950) e ampiamente davanti alla Spagna (483). Si tratta di un risultato straordinario per un paese che non rientra nel novero delle tradizionali superpoternze brassicole, ma che solleva qualche perplessità se confrontato con altre voci statistiche. Il primato infatti si allontana decisamente se consideriamo i volumi di produzione (Italia decima in Europa) e soprattutto i consumi pro capite, che pongono il nostro paese malinconicamente nelle ultimissime posizioni della graduatoria in un continuo testa e testa con i cugini francesi. In parole povere è impossibile non notare una curiosa discrepanza tra numero di birrifici attivi e birra effettivamente consumata dalla popolazione: un gap che prima o poi farà sentire i suoi effetti. È interessante notare che tra le cinque nazioni citate inizialmente compaiono anche Francia e Spagna, anch’esse non certo considerate patrie storiche della birra; ma mentre per la Francia vale un discorso molto simile al nostro, la Spagna può avvalersi di un consumo pro capite quasi triplo (oltre che di un numero fondamentalmente ridotto di birrifici).

Concentrando lo sguardo esclusivamente sul mercato italiano, scopriamo che nel triennio 2015-2017 le imprese brassicole sono aumentate di un incredibile 55% e gli addetti del 16%. È interessante notare che per il 22% di queste la produzione di birra è solo un’attività secondaria, perché magari già attive nella ristorazione o nell’attività agricola: fattispecie di cui conosciamo bene l’esistenza, ma che mai avrei immaginato così diffuse (praticamente più di un birrificio su cinque rientra in questa tipologia). Il comparto è ancora fragile e in una fase di totale sviluppo, tanto che più della metà dei birrifici è costituita da imprese individuali. Quasi meraviglia e conforta sapere allora che la crescita dell’ultimo triennio non è dovuta solo alla comparsa di nuovi piccoli produttori, ma anche alla crescita e al consolidamento di quelli già operanti.

I dati successivi esposti nel Report 2018 provengono dall’indagine diretta, ottenuta tramite la somministrazione di un questionario ai soci Unionbirrai. E qui emerge un problema che considero piuttosto importante, sia per la validità statistica dei dati in quanto tali, sia soprattutto per lo stato in cui versa il nostro comparto. A monte infatti era stato stabilito un panel di 350 birrifici, cioè quasi la metà di quelli operanti in Italia. Purtroppo sono tornati indietro 134 questionari e solo 109 di questi effettivamente utilizzabili ai fini dell’indagine – senza considerare che per alcune voci statistiche il numero è stato ancora inferiore. Questo significa che più dei due terzi dei birrifici associati a Unionbirrai non ha voluto o non ha saputo rispondere a un questionario sottoposto dalla stessa associazione a cui appartengono. È un situazione francamente imbarazzante, che oltre a non permettere un maggior livello di fedeltà dei risultati finali, mostra con quanto dilettantismo spesso si operi in questo ambiente. Dilettantismo che, se ancora non fosse chiaro, non è più ammissibile in un mercato ogni giorno più competitivo.

Tornando ai dati emersi dall’indagine, scopriamo che in Italia più della metà delle aziende brassicole rientra nella fattispecie dei “normali” birrifici artigianali (57%) e che la quota restante è suddivisa quasi equamente tra brewpub (24%) e birrifici agricoli (19%). I margini strutturali di crescita sono ancora ampi, se consideriamo che nel 2017 è stato prodotto solo il 55% degli ettolitri potenziali di tutti i birrifici italiani (130.000 hl): queste previsioni però si scontrano con l’effettiva domanda del mercato, che tuttavia sembrerebbe ancora in crescita. La maltazione in house e la coltivazione di luppolo sono effettuate rispettivamente dal 9% e 8% dei birrifici: percentuali che il report definisce modeste, ma che secondo me non sono poi così basse. Il settore gode ancora di buona salute se consideriamo che nessun birrificio mostra un fatturato al ribasso e che per il 73% di loro è in crescita. Purtroppo per questi dati il campione d’indagine scende a 44 unità, dettaglio che consiglia di prendere con le pinze una rilevazione che invece possiede un importante valore simbolico.

La maggior parte dei birrifici italiani (32,9%) produce tra le sei e le dieci birre e poco più del 16% arriva a commercializzare oltre le 15 etichette. Le basse fermentazioni rappresentano solo un quarto di tutte le birre disponibili sul mercato e più della metà della birra è confezionata in fusto. Un dato che merita un approfondimento deriva dalla destinazione geografica della produzione: a parte l’export che rappresenta ancora una fetta trascurabile (3%), il resto della birra finisce divisa quasi equamente tra distribuzione locale (38%), regionale (29%) e nazionale (30%). Sono numeri abbastanza clamorosi, perché nonostante il comparto sia fragile e costituito per lo più da aziende minuscole, un terzo del prodotto finisce sul mercato nazionale. Insomma, ci si aspetterebbe una distribuzione per lo più locale, cioè coerente con le dimensioni aziendali, invece emerge un quadro completamente diverso. E questa è un’altra incongruenza che nel lungo termine potrebbe rivelarsi un problema non indifferente.

Conviene poi spendere qualche parola sull’indagine rivolta ai consumatori. Tra i freni al consumo emergono due percezioni che esistono da sempre nel nostro ambiente: i prezzi troppo elevati e la difficoltà nel reperire il prodotto. Sono note dolenti coerenti con l’indagine che proponemmo nel 2010, sebbene si noti un certo ridimensionamento del problema reperibilità probabilmente anche grazie alla diffusione di ecommerce specializzati. Il prezzo invece continua a rappresentare un ostacolo atavico per la birra artigianale in Italia, tanto che un suo abbassamento è percepito come il principale stimolo al consumo. Se pensate che i prodotti dei microbirrifici siano acquistati quasi esclusivamente in pub e locali specializzati dovrete ricredervi, perché questi luoghi sono superati da ristoranti e pizzerie nonché (rullo di tamburi) dalla GDO.

Infine mi preme concentrare l’attenzione su altri due parametri. Il primo riguarda la costante richiesta di informazioni da parte dei consumatori: c’è una massa di gente incuriosita dalla birra artigianale, ma che rimane ai margini perché poco informata al riguardo. Il secondo, che considero collegato, proviene invece dall’indagine rivolta ai birrifici, dalla quale emerge che i social network sono di gran lunga il canale di comunicazione più utilizzato dai produttori: se escludiamo le manifestazioni, il peso di questi strumenti è pressoché totalizzante rispetto a sponsorizzazioni, mass media e altri canali digitali.

Cosa emerge quindi dal Report 2018 di Unionbirrai e Obiart? Ognuno può trarre le interpretazioni che ritiene più opportune, ma secondo me la lettura è molto semplice: il comparto è ancora sostanzialmente in salute, ma si stanno adottando strategie non sempre coerenti con le reali potenzialità del mercato e che potrebbero, nel medio-lungo termine, rivelarsi fallimentari. Viviamo immersi in pesanti paradossi: i birrifici sono minuscoli, ma destinano un terzo del loro prodotto alla distribuzione nazionale; in Italia si beve poca birra, ma solo il 3% del prodotto è destinato all’export; i consumatori cercano birra nella GDO, ma i birrifici rimangono tiepidi nei confronti di questo canale pur puntando a distribuire birra in tutta Italia; i potenziali clienti desiderano maggiori informazioni, ma la maggior parte degli investimenti in comunicazione sono appannaggio di Facebook, cioè di un bacino presumibilmente già preparato. O cominciamo a pensare che queste rilevazioni sono importanti – e quindi magari ci si impegna anche a favorirne la realizzazione – oppure continueremo a muoverci tra mille contraddizioni, rimanendo ancorati a credenze che i fatti finiranno per sconfessare.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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2 Commenti

  1. Jack Beer Lover

    “È un situazione francamente imbarazzante, che oltre a non permettere un maggior livello di fedeltà dei risultati finali, mostra con quanto dilettantismo spesso si operi in questo ambiente. Dilettantismo che, se ancora non fosse chiaro, non è più ammissibile in un mercato ogni giorno più competitivo”.

    Un questionario compilato su tre…

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