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Dalla fase 1 alla fase 2: quale futuro per la birra artigianale italiana?

Ieri è cominciata per l’Italia la tanto attesa fase 2 dell’emergenza coronavirus, che ci ha permesso di riappropriarci di un pezzetto di normalità. La percezione è che l’allentamento delle restrizioni abbia permesso di scaricare un po’ di tensione tra la popolazione, tensione che fisiologicamente era cresciuta con il prolungarsi del lockdown. Per il comparto della birra artigianale, tuttavia, il passaggio alla fase 2 non ha apportato grandissimi cambiamenti: il settore rimane pressoché fermo, le problematiche economiche sembrano lontane da una soluzione efficace e le speranze di chi auspicava veloci riaperture sono state completamente disattese. Nel pezzo di oggi cerchiamo di fare il punto della situazione, tracciando un bilancio della fase 1 e una previsione di come potrebbe evolvere la fase 2.

Cos’è successo durante la fase 1

Il lockdown che ha dovuto affrontare l’Italia nelle scorse settimane ha colpito gravemente il settore nazionale della birra artigianale. I motivi li abbiamo spiegati a più riprese e si riassumono nella quasi totale dipendenza dei birrifici nei confronti del canale horeca, o meglio in una piccola frazione dello stesso composta da pub indipendenti, ristoranti “illuminati” e beershop. Tutte realtà che hanno dovuto chiudere sin dai primi giorni della fase 1 e che torneranno alla normalità per ultime. La situazione ha dunque evidenziato una pesante fragilità del comparto nelle sue dinamiche di distribuzione, danno che si è accompagnato a una sonora beffa: l’industria del beverage è stata infatti tra le poche a restare attive, quindi per i birrifici italiani molte cose sarebbero potute rimanere inalterate. Ma essendosi ritrovati senza più uno sbocco commerciale, hanno dovuto ridurre drasticamente la propria attività. Il crollo è stato devastante, con una contrazione media del fatturato pari al 90%-95%.

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Molti produttori sono corsi ai ripari con soluzioni alternative. La più diffusa è stata la vendita diretta al cliente finale, grazie all’attivazione di servizi di delivery e di ecommerce sui relativi siti web. Questa reazione ha comportato vantaggi secondari da non sottovalutare, ma in termini economici ha rappresentato un brodino caldo in un momento di grande difficoltà. A parte casi isolati (e già pronti prima dell’emergenza sanitaria), la vendita diretta ha coperto una percentuale minima del fatturato normale. Il periodo è stato sicuramente meno gravoso per quei pochissimi birrifici con una presenza nella grande distribuzione, tanto che molti produttori hanno cominciato a guardare con interesse verso questo controverso canale, compresa Unionbirrai. Al di là di questi timidi tentativi e a iniziative di vario genere orientate a sostenere il comparto, la fase 1 ha costretto molti protagonisti ad adattarsi a una situazione completamente nuova e inaspettata.

Come sarà la fase 2

La fase 2 è cominciata ieri, ma per il settore della birra artigianale poco è cambiato. La fascia più colpita è quella rappresentata da pub e birrerie, che stanno affrontando un’interruzione prolungata non più sostenibile. Anche in questo caso il delivery – con le dovute eccezioni – sta rappresentando l’ultima spiaggia per prolungare l’agonia, sperando che si possa tornare alla normalità prima di fallire definitivamente. Le recenti dichiarazioni del presidente Conte hanno però gettato sconforto nel settore: nell’ormai famosa conferenza stampa di presentazione della fase 2, ha dichiarato che la riapertura di bar e ristoranti è prevista non prima di inizio giugno. Nel frattempo l’unica concessione è il take-away: è un granello di sabbia che si aggiunge a un altro granello di sabbia (quello delle consegne a domicilio), ma rivedere le serrande alzate può dare fiducia sia ai consumatori che agli stessi operatori.

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Il morale nell’ambiente è molto basso. All’inizio della fase 1 molti hanno cercato di fare buon viso a cattivo gioco, spesso anticipando per senso di responsabilità le stesse direttive del governo. Durante le prime settimane ha prevalso un senso di fiducia nelle istituzioni e di solidarietà condivisa tra gli operatori; poi con il passare del tempo l’atmosfera è diventata comprensibilmente più pesante. Il ritardo (o l’assenza) di strumenti di supporto al settore ha alimentato le frustrazioni, che talvolta sono sfociate in accuse tra i vari attori del mercato. Negli ultimi giorni della fase 1 si è respirata un’aria molto pesante, che l’ingresso nella fase 2 sembra aver temporaneamente allentato. Ma è facile immaginare che presto tornerà a farsi sentire.

Più che un’apertura anticipata, molti locali chiedono chiarimenti sulle modalità che l’accompagneranno. Il timore è che il distanziamento tra i tavoli e l’obbligo di adottare misure preventive renderà la riapertura estremamente gravosa e paradossalmente peggiore della situazione attuale. Alcuni addirittura auspicano di rimandare questo momento a quando sarà possibile operare in condizioni quasi normali, anche perché un’esperienza poco piacevole per i clienti potrebbe influenzare i loro ricordi (e dunque le proprie abitudini) per molto tempo. L’impressione è che il governo possa anticipare di qualche giorno l’apertura di bar e ristoranti se l’andamento della fase 2 si rivelerà positiva, ma la domanda è con quali modalità. Credo che però sarà inevitabile passare per una fase intermedia, che magari si rivelerà quantomeno confortante in termini di morale collettiva.

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Il futuro a lungo termine

Nella prima fase del lockdown molti si auspicarono di poter sfruttare il momento per ragionare sul settore e sul suo futuro. Un assist da questo punto di vista è arrivato proprio dal blocco del comparto e dall’evidenza dei suoi limiti in termini distributivi. Sarebbe potuto essere un buon viatico per una riflessione di ampio respiro, ma presto sono subentrate altre necessità e una certa isteria che, fisiologicamente, è cresciuta di giorno in giorno. Ogni buon proposito iniziale è andato a farsi benedire e forse abbiamo perso una buona occasione. Il dibattito si è presto spostato sul prezzo al dettaglio, cioè sull’aspetto percepito come più urgente in un momento di difficoltà economiche. E c’è chi ha sostenuto la necessità di sostenere l’intera filiera con prezzi adeguati per i consumatori finali. Ragionamenti leciti e comprensibili, ma che non di rado hanno travalicato i confini del buon senso.

Mai come in questo periodo è apparso evidente che l’intero sistema si basa su un meccanismo assai limitato, di cui le ridotte alternative distributive sono solo la punta dell’iceberg. In Italia non siamo grandi bevitori di birra, ma quella artigianale si muove in un contesto che definire di nicchia è riduttivo. È una sorta di piccolo villaggio che si alimenta di sé stesso e che si basa su rapporti fragilissimi. Che non ha interesse ad ampliare i propri confini e che si affida oltremodo alla fedeltà del consumatore finale. Consumatore a cui è stato chiesto, negli anni, di capire perché la birra artigianale in bottiglia costa quattro volte quella industriale, perché al pub i prezzi sono aumentati e i bicchieri si sono rimpiccioliti, perché ha dovuto sborsare più soldi quando sono aumentate le accise ma non risparmiarli quando sono state ridotte, perché in birreria deve pagare tutte le birre lo stesso prezzo anche quando il publican le paga in maniera differenziata, perché deve fidarsi della quantità presente nel bicchiere senza che lo stesso sia fornito di tacca. E posso continuare ancora. Ma ora, come se non bastasse, gli si chiede di sobbarcarsi il costo dell’intera filiera anche quando non viene utilizzata. Perché “la filiera non può essere interrotta”, perché “deve capire il valore del prodotto finale”.

L’emergenza sanitaria ha mostrato una necessità impellente. La birra artigianale ha assoluto bisogno di ampliare il suo bacino di utenza e di raggiungere nuove fasce di popolazione. Alcune se l’è già bruciate da tempo per una serie di motivi: approccio snob, prezzi poco accessibili, comunicazione risibile. Ma ora la concorrenza è cresciuta, la moda è passata e molte regole sono saltate. È giunto il momento di compiere un salto di qualità, ma per farlo occorre capire che alcune dinamiche, date per consolidate nel tempo, non sono altro che l’effetto di un sistema drogato. Un sistema che non può continuare a funzionare come prima, altrimenti sarà destinato a implodere. All’esterno c’è predisposizione, c’è curiosità: chi vorrà intercettarla sopravviverà e andrà avanti, gli altri sono destinati a fallire.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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1 commento

  1. Sono d’accordo con te Andrea, la facilità con cui siamo stati contagiati dall’ isteria, ha tolto il velo dalla fragilità dei meccanismi di mercato su cui il comparto oggi galleggia. In una prospettiva di impoverimento collettivo, urge una rivisitazione dell’offerta.

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