Sebbene negli ultimi anni molto sia cambiato nelle produzioni casalinghe di birra, portando il livello medio a livelli decisamente più alti rispetto a qualche anno fa, non è raro, anzi, diciamo che è ancora piuttosto comune, imbattersi in birre difettate quando si assaggiano produzioni fatte in casa. Lo dico anzitutto da homebrewer, dopo più di un decennio di onorata carriera, ma anche da giudice. In tempi recenti, grazie al diffondersi delle competizioni per homebrewer targate BJCP anche in Italia (periodo di pandemia a parte), mi è capitato di sedere al tavolo di diverse giurie. In queste occasioni, oltre ad assaggiare diverse birre, ho avuto anche occasione di scambiare opinioni con altri giudici. Spesso si parla di difetti, che nelle birre fatte in casa sono sicuramente più comuni rispetto alle produzioni commerciali. Quali sono i più diffusi, e quali meno? Oggi parliamo del primo gruppo, di cui ho stilato una personale classifica basata non su fonti statistiche, ma sulla mia esperienza come giudice e come homebrewer. Ho provato anche a esplicitare le cause dei difetti, soffermandomi su quelle che sono più probabili quando si produce birra a livello amatoriale.
Ossidazione
Questo difetto lo posiziono senza dubbio al primo posto, per due ragioni molto diverse tra loro. La prima, più ovvia, perché effettivamente costituisce uno dei maggiori problemi delle produzioni casalinghe. La seconda, meno scontata, non risiede nei processi di produzione casalinghi ma nella testa del giudice. Purtroppo, per quella che è la mia personale esperienza, molti giudici tendono a trovare ossidazione nelle birre fatte in casa quasi per partito preso, senza una specifica indicazione sul tipo di ossidazione che a loro parere stanno riscontrando nella birra che si trovano nel bicchiere. Con questo approccio, spesso un po’ troppo polarizzato, l’ossidazione non può che salire al primo posto tra i difetti. La complessità nel valutare e descrivere questo tipo di difetto risiede soprattutto nella capacità che ha l’ossidazione di manifestarsi attraverso molteplici sensazioni gusto-olfattive: da quelle tattili, come l’astringenza, a quelle visive, come il colore grigio-rosato; in aroma, come cartone bagnato, stantio, “green” (cetriolo), ma anche semplicemente aromi stanchi e spenti; al palato, dove possono tornare nel retrolfatto i difetti da ossidazione percepiti al naso.
Di elementi che si possono ossidare nella birra ce ne sono molti, tra cui i più comuni sono i polifenoli, che provengono dai malti o dai luppoli: possono portare torbidità, imbrunimento del colore, astringenza. Le melanoidine, quei composti, provenienti dai malti, che ricordano piacevoli aromi come il pane appena sfornato, le crostate, il bordo della pizza, i toast, i biscotti, possono perdere “freschezza” fino a scomparire, rendendo la birra “dull” (monotona, noiosa). Gli oli essenziali del luppolo, che conferiscono brillantezza resinosa e fruttata alle birre luppolate, possono implodere fino a chiudersi in un confuso aroma di marmellata di frutta, spesso frutta rossa. Gli acidi grassi (quelli insaturi, contenuti nel germe dei cereali), spesso ossidati nella fase di produzione del mosto, a caldo, con il tempo possono trasformarsi in aldeidi i cui aromi spaziano dal cartone bagnato (raramente presente nelle birre fatte in casa), a generici aromi di stantio, vecchio (più comuni). Gli alcoli superiori, prodotti dal lievito durante la fermentazione, ossidandosi producono aldeidi che da un lato possono arricchire il profilo aromatico di un Barley Wine con note di marsala, porto o vini fortificati in generale, dall’altro possono inquinare irrimediabilmente il profilo aromatico di una Tripel o di una Belgian Golden Strong Ale con note caramellose o mielose piuttosto fastidiose.
Evitare del tutto l’ossidazione è impresa ardua, lo è perfino per i birrifici. Fortunatamente in molti stili è sufficiente limitarla per ottenere buoni risultati, ma in altri, come IPA e simili, o basse fermentazioni delicate come Helles o Pilsner, occorre attrezzarsi con impianti evoluti, adottando anche in casa la tecnica della contropressione, con bombola di anidride carbonica, carbonazioni forzate o in spunding, mantenimento della catena del freddo.
Devo dire che negli ultimi anni ho visto enormi miglioramenti in tal senso, la speranza è che tra qualche anno questo difetto scenda dalla vetta, grazie a un miglioramento nei processi produttivi, ma anche a una maggiore preparazione dei giudici che finiscono al tavolo di giuria nelle competizioni per homebrewer (anche in questo ambito, devo dire, negli ultimi anni ho visto un netto miglioramento).
Solvente
Nella classifica dei difetti più frequenti nelle birre prodotte in casa non potevano mancare, tra le prime posizioni, quelli dovuti a una gestione non ottimale del lievito e/o del processo fermentativo. Il nome stesso di questa rubrica (il fermentatore nell’armadio) deriva proprio dalla mia prima camera di fermentazione casalinga, che altro non era che un armadio svuotato dei vestiti. In queste situazioni ci si affida alla sorte per la gestione della temperatura di fermentazione, lasciando che il lievito si moltiplichi e consumi gli zuccheri presenti nel mosto in balia delle dinamiche ambientali. Qui risiede il principale problema: quando le cellule si moltiplicano, producono alcoli e acidi. I primi sono in genere prodotti di scarto, in parte tossici per il lievito stesso ad alte concentrazioni; i secondi fanno parte invece di processi metabolici fondamentali per la vita cellulare. Acidi e alcoli possono unirsi grazie a una particolare classe di enzimi, le transferasi, dando vita a un estere, che produce aromi fruttati. Questi possono essere piacevoli, in basse concentrazioni, in alcuni stili (pensiamo al delicato aroma di mela o albicocca che possiamo trovare in una Tripel), ma quando la loro concentrazione aumenta possono iniziare a “sporcare” il profilo organolettico della birra.
Maggiore è la temperatura di fermentazione, maggiore sarà la riproduzione cellulare, maggiore la produzione di esteri. Di alcoli e acidi nella birra ne esistono molti, e quindi molti possono essere gli aromi fruttati (esteri) prodotti durante la fermentazione. Essendo l’alcol etilico (etanolo) quello presente in concentrazione maggiore, il rischio si corre soprattutto con gli esteri dell’etanolo. Tra questi, il più comune è l’acetato di etile, che si forma dall’unione di acido acetico (sempre prodotto dal lievito durante la fermentazione, poi trasformato in metaboliti essenziali per la vita cellulare) e alcol etilico. L’acetato di etile, in basse dosi, ha un aroma fruttato che può ricordare la pera, ma già da concentrazioni modeste inizia a virare sull’acetone per togliere lo smalto, o il solvente.
Anche un tasso di inoculo non sufficiente favorisce la riproduzione cellulare, e quindi lo sviluppo di concentrazioni eccessive di acetato di etile. È noto il “braccino corto” degli homebrewer con il lievito (“ahò, due bustine costano!”), che spesso si preoccupano solo di portare a termine la fermentazione. Cosa che, detto tra noi, avviene praticamente sempre, anche con tassi di inoculo ridicoli, a discapito del profilo organolettico. Da qui il famoso detto “mai avuto problemi”, tipico degli homebrewer alle prime armi che “tanto se bevono tutto”. Senza contare che diversi produttori casalinghi in erba si lanciano troppo presto nell’utilizzo di lieviti liquidi, il cui tasso di inoculo è tutt’altro che facile da gestire.
Complici anche istruzioni dei kit ancora confuse e dotazioni di lievito vecchio e mal conservato, il solvente continua a far capolino nelle produzioni casalinghe, specialmente quando ci si avvicina al periodo estivo, stagione in cui un armadio svuotato dai vestiti non è sufficiente per garantire un processo i produzione adeguato. E qui mi sento di ringraziare pubblicamente Lars Garshol che ha portato alla luce i lieviti norvegesi Kveik.
Acetaldeide
Al terzo posto troviamo un altro difetto dovuto solitamente a una non ottimale gestione del lievito e/o della fermentazione. L’acetaldeide, che in genere ricorda la mela verde, è un metabolita che viene sempre prodotto dal lievito durante la fermentazione, per trasformarsi poi in alcol etilico, per la maggior parte, o in acido acetico, per formare acidi grassi (utili per rinforzare le pareti cellulari e per altri processi metabolici). Se le cellule di lievito non sono in forma, l’acetaldeide può attraversare le pareti cellulari e riversarsi nella birra. Mediamente il lievito la recupera, lentamente, a fermentazione terminata, per trasformarla in alcol etilico, ma può capitare che questa conversione finale non avvenga. Se abbiamo inoculato poco lievito o ossigenato troppo poco (nel caso si utilizzino lieviti liquidi in busta), le cellule possono arrivare stanche a fine fermentazione e interrompere l’attività prima di riassorbire l’acetaldeide residua, che rimane in sospensione e arriva fino al bicchiere. Ma può anche succedere, e spesso accade, che si proceda all’abbattimento di temperatura (il passaggio per ripulire la birra dai residui solidi in sospensione) troppo presto, facendo addormentare il lievito prima che abbia terminato le pulizie post fermentazione. È un difetto abbastanza comune nelle birre prodotte in casa proprio perché è legato al lievito e alla fermentazione, aspetti che richiedono particolare attenzione e una discreta esperienza per essere gestiti al meglio.
Solfuri e solfiti
Capita piuttosto frequentemente, soprattutto nelle birre belghe fatte in casa, di avvertire aromi di zolfo (solfiti) o addirittura fogna, acque albule, meno frequentemente rifiuti in stato di decomposizione (solfuri). Si tratta di composti dello zolfo, prodotti anche questi dal lievito durante la fermentazione. Non è facile tenerli a bada, perché le cause che possono provocarne una produzione in eccesso sono molteplici. In genere, solfiti (andride solforosa) e solfuri (acido solfidrico o solfuro di idrogeno) vengono rilasciati dal lievito come metaboliti secondari nel processo di composizione degli amminoacidi. Alcuni di questi contengono zolfo (come cisteina e metionina), la cui lavorazione può portare allo scarto di composti dello zolfo che finiscono nella birra. La quantità di questi composti che viene prodotta durante la fermentazione dipende molto dal ceppo di lievito: alcuni, come appunto i lieviti belgi, ma anche i lieviti Weizen, sono geneticamente predisposti a produrne in quantità maggiore. Sebbene i composti dello zolfo siano piuttosto volatili e tendano a liberarsi nell’aria durante la fermentazione, a volte la loro concentrazione è tale da rimanere nel prodotto finito. Anche in questo caso, un lievito stanco (che provoca una fermentazione lenta e poco vigorosa) riduce la volatilizzazione dei composti dello zolfo preservandoli fino al bicchiere. Tuttavia, può capitare che anche un lievito attivo e vitale ne produca in quantità. Per ridurne la formazione, può essere utile aggiungere nutrienti per lievito, in forma di vitamine (attenzione a non aggiungerle al mosto bollente, perché sono termolabili) e amminoacidi (lievito lisato). Questo tipo di nutrienti è quello venduto nella maggior parte dei siti per homebrewer. Consiglio di utilizzarli con ceppi di lievito che hanno una propensione genetica a produrre questo tipo di composti durante la fermentazione, come il Trappist High Gravity, i leiviti Weizen o i lieviti Saison. In altri casi non sono indispensabili.
Salamoia
Il mio incubo peggiore: l’aroma di salamoia nelle birre scure. Quante volte ho sentito giudici o anche homebrewer lamentarsi dell’aroma di salamoia nelle loro Stout? Per qualcuno si tratta di una vera e propria fissazione che lo perseguita da quando ha iniziato a fare birra in casa. L’aspetto curioso è che ci troviamo di fronte a un aroma su cui non si trova quasi nulla in letteratura. Sembrerebbe addirittura un difetto che percepiamo tipicamente noi italiani, di cui è anche difficile trovare la traduzione in inglese, che sarebbe utile per estendere le ricerche di fonti online. Brine? Pickle? Olives? Non saprei. Uno dei pochissimi riferimenti che ho trovato è nella famosa guida totale-spaziale-globale ai difetti, dove c’è dentro di tutto (a volte, a mio avviso, anche troppo: un po’ buttato lì). Olives si trova tra gli aromi causati da un eccesso di DMS (solitamente associato alle verdure bollite o alla salsa di pomodoro), ma c’è da dire che tra i descrittori per il DMS, in questa guida ai difetti, c’è davvero di tutto. Quindi, no: non credo sia questa la salamoia di cui tanto si parla.
Ovviamente c’è chi la riconduce all’ossidazione, ma vince facile: quando sei nel panico, ricondurre un difetto all’ossidazione è come segnare a porta vuota. Sarà che a me non capita spesso di sentirlo, e sono anche abbastanza convinto che se uno ci si impegna lo trova praticamene sempre in una birra scura. Predisposizione mentale? Bias? Veramente difficile dirlo. Altra ipotesi che qualcun altro ha messo sul tavolo è l’autolisi delle cellule di lievito, ma non è chiaro a quali composti specifici all’interno delle cellule possa essere legato questo fantomatico aroma di salamoia. E poi, perché si troverebbero principalmente nelle birre scure? Tutte queste ipotesi non mi convincono, se avete qualche idea migliore fatemela sapere. E se siete uno di quelli che sente salamoia in qualsiasi birra scura, fatevi delle domande.
Astringenza
Una leggera astringenza non si nega mai a nessuno. Anche solo per completare la sezione mouthfeel della scheda BJCP, che rimane sempre un po’ troppo vuota e rischia di stonare con il resto. Scherzi a parte, è piuttosto comune trovare astringenza nelle birre fatte in casa, specialmente nelle luppolate e in quelle scure. Purtroppo le cause che la possono generare sono molteplici, è difficile dare consigli specifici senza conoscere nel dettaglio il processo produttivo e gli ingredienti utilizzati nella ricetta, soprattutto in termini di qualità e quantità.
L’astringenza in genere deriva da un eccesso di polifenoli (non è l’unica causa, ma la principale), che si legano alle proteine della saliva generando quella sensazione allappante tipica di quando si mastica la buccia o un acino d’uva, o si mette in bocca una bustina di tè (mai fatto? provatelo!). I polifenoli che troviamo nella birra derivano in gran parte dalle glumelle dei malti (le bucce che proteggono i chicchi, così importanti per la filtrazione del mosto), ma anche dai luppoli, specialmente quando se ne usano in abbondanza (NEIPA o DDH IPA vi dicono qualcosa?).
Se escludiamo l’utilizzo di ingredienti non freschissimi, che possono causare astringenza, la causa più comune è un’errata gestione del pH durante il processo di produzione. In particolare durante ammostamento e bollitura. Nel primo caso, il range ideale per il pH sarebbe 5.2-5.4 (è anche più esteso, ma meglio tenerlo basso per limitare appunto l’estrazione dei polifenoli), in bollitura meglio 5.2 (andrebbe abbassato dopo l’ammostamento, ma molti non lo fanno). pH troppo alti favoriscono la solubilizzazione dei tannini/polifenoli durante il processo di produzione a caldo, che poi arrivano al palato in forma di astringenza. Eh no, non serve a nulla fare ammostamento a freddo dei malti scuri (considerati più astringenti): si rischia solamente di estrarre aromi diversi cambiando il profilo organolettico della birra. Il che potrebbe anche essere interessante, basta esserne consapevoli.
Indovinate un po’? Una eccessiva astringenza può derivare anche da ossidazione, che porta i polifenoli ad aggregarsi formando molecole più grandi, maggiormente astringenti. L’astringenza viene spesso collegata a un eccesso nel dosaggio di luppolo, o a un tempo di contatto eccessivo con la birra durante il dry hopping. Questo è il consiglio facile (usa meno luppolo o riduci il tempo di contatto), ma in realtà è molto improbabile che tempi di contatto prolungati causino astringenza da luppolo (ci sono diversi documenti al riguardo, tipo questo). È più probabile che l’astringenza in una birra luppolata fatta in casa derivi dall’ossidazione, dovuta, appunto, all’aggiunta di luppolo post fermentazione: l’apertura del fermentatore lascia entrare ossigeno che, come ben sappiamo, può causare gravi danni alla birra. In questo caso, diamo il benvenuto al Beerbong della Kegland, che speriamo aiuti gli homebrewer a risolvere questo tipo di problema.
Medicinale
Chiudiamo con un difetto che può essere legato al lievito e alla fermentazione (e spesso lo è), oppure a residui di sanitizzanti (candeggina) o eccesso di cloro nell’acqua. Nel primo caso, si tratta dei fenoli prodotti da alcuni ceppi di lievito, detti POF+ (Phenolic Off Flavour Positive). Questi lieviti riescono a trasformare gli acidi fenolici (presenti nel malto) in fenoli, composti aromatici che producono aromi di spezie come pepe, noce moscata, cumino o chiodo di garofano. Si tratta di aromi che troviamo principalmente nelle birre di ispirazione belga o nelle Weissbier, appunto perché fermentate con lieviti POF+. Difficile trovare aromi speziati in birre inglesi, americane o basse fermentazioni, a meno di lievi note di pepe riconducibili a luppoli continentali europei o inglesi. Capita spesso che la produzione di fenoli sfugga di mano, dando luogo ad aromi più vicini al medicinale, al collutorio o in generale allo studio dentistico. Il difetto da medicinale è spesso riconducibile a una errata gestione del lievito e/o della fermentazione, quindi è spesso presente, come altri già citati, nelle birre degli homebrewer con meno esperienza. Meno frequentemente degli altri difetti semplicemente perché i lieviti POF+ sono un sottogruppo, e se il lievito non è POF+ questo difetto in genere non si manifesta. È più facile che ci sia aroma di solvente, dovuto a un’eccessiva produzione di esteri, composti che tutti i lieviti sono in grado di sintetizzare. Spesso l’aroma di medicinale viene ricondotto a temperature di fermentazione troppo alte, ma il legame tra produzione di fenoli e temperatura non è così lineare (come lo è invece per gli esteri). Alcuni lieviti, come il Belgian Saison, producono piacevolissimi aromi di pepe anche fermentando a 26 °C. Spesso, almeno per la mia esperienza, il difetto fenolico è riconducibile a un tasso di inoculo non adeguato.
Ci sono casi, però, in cui l’aroma fenolico può essere causato da processi diversi dalla fermentazione. Il cloro può legarsi ai polifenoli producendo i temibili clorofenoli, che producono aromi di medicinale, ma anche plastica o gomma bruciata. Decisamente spiacevoli. Da dove può arrivare il cloro? Dall’acqua di produzione, anzitutto: in quelle di rete viene spesso aggiunto cloro per evitare la proliferazione batterica. O da residui di sanitizzanti a base di cloro, come la candeggina, efficace sanitizzante, che va ben risciacquata con acqua calda proprio per evitare l’insorgere di questo difetto.
Non è molto chiaro cosa l’autore intenda con aroma di salamoia, potrebbe approfondire la descrizione? Perché se penso alla salamoia mi vengono in mente sensazioni più del gusto che dell’olfatto, un misto tra salmastro e acido, associate anche a una stimolazione del trigemino, mentre sul fronte dell’olfatto la stimolazione è specifica di quello che si trova nella salamoia.
Ciao Giovanni, corretta osservazione. Intendo sensazioni olfattive, non palatali. La salamoia classica delle olive, diciamo, che ha un aroma piuttosto riconoscibile.
Ok allora non era tutto nella mia testa. La mia prima birra scura sapeva di salamoia e da allora ho iniziato a sentirla in alcune birre scure artigianali.
Ho cercato su internet, ma ho trovato veramente pochi riscontri. Sarebbe interessante un approfondimento sul tema!
Grazie dell’articolo, ottimo lavoro
Ciao Leone, tempo fa provai a fare un approfondimento sul mio blog: https://brewingbad.com/2019/10/la-salamoia-e-le-birre-scure/
l’edit finale di quel articolo mi sembra possa cogliere il punto. Se interessa in questo lavoro – https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fmicb.2014.00570/full – viene caratterizzato il profilo aromatico delle olive e delle olive in salamoia a diversi intervalli di tempo. L’aroma delle olive sembra più ricco di quelle in salamoia, soprattutto di aldeidi, mentre quelle in salamoia si arricchiscono di alcoli superiori, con una certa varietà a seconda della specie di oliva. In particolare sono di interesse le due tabelle in cui sono mostrati i risultati delle analisi GC. Un fattore da tenere in conto è che l’olfatto è un senso combinatorio non lineare e la relazione molecola-odore funziona solo fino a un certo punto, per diverse ragioni.
Da due produzioni in bottiglia trovo delle membrane, simili al sigma proteoso (pelle) del latte. Non ho gusti particolari sgradevoli ma è fastidioso ritrovarsi questa membrana nel bicchiere o peggio in bocca.
Mi sembrerebbe fioretta.