Nel corso della sua lunga storia la produzione di birra è diventata sempre più controllabile, con l’obiettivo di ottenere prodotti qualitativamente stabili e relativamente riproducibili. Ciò è stato possibile grazie al perfezionamento delle tecniche produttive, all’adozione di nuove tecnologie e alle scoperte scientifiche. L’intero processo è diventato sempre più asettico e isolato dall’ambiente esterno, onde evitare interazioni indesiderate e poco gestibili. In diverse culture brassicole, tuttavia, alcune tecniche tradizionali – se non addirittura ancestrali – sopravvivono ancora oggi, per motivi diversi. Un caso particolare è rappresentato dalle vasche aperte, che permettono un contatto diretto e continuativo del mosto con l’aria. Il primo pensiero va alle coolship del Pajottenland, le vasche di raffreddamento del Belgio usate per la produzione del Lambic, lo stile acido per antonomasia. Tuttavia in altre parti del mondo le vasche aperte vengono utilizzate per la fermentazione, esattamente come avveniva in passato prima dell’avvento (intorno agli anni ’60) dei tini chiusi in acciaio inossidabile. Di entrambi i contenitori oggi abbiamo alcuni esempi anche in Italia.
Vasche di raffreddamento vs vasche di fermentazione
Innanzitutto è opportuno distinguere i due tipi di serbatoio. Nelle coolship (o koelship) usate dai birrifici che producono birre a fermentazione spontanea avviene “semplicemente” il raffreddamento del mosto e non la fermentazione stessa. Dopo la consueta bollitura, il mosto viene spostato in queste grandi vasche in rame o acciaio, dalla forma ampia e bassa per massimizzare la superficie a contatto con l’aria. Il liquido viene lasciato raffreddare tutta la notte e contemporaneamente i microrganismi presenti nell’aria “fecondano” il mosto. Raggiunta la temperatura ideale, quest’ultimo è spostato nelle botti di legno dove effettivamente comincia la fermentazione. In altre parole la coolship non è usata per fermentare la birra ma – come dice la parola stessa – per raffreddare il mosto.
Diverso è il discorso per le vasche aperte utilizzate espressamente per la fermentazione. Sono pochissimi i birrifici che le impiegano ancora oggi nel processo produttivo, tuttavia sono presenti tanto nel Regno Unito quanto in Germania e Repubblica Ceca. In particolare in Inghilterra prendono il nome di Yorkshire Square: recipienti di forma cubica della portata di circa 50 hl (ma possono arrivare anche a 300 hl) progettati per rendere più efficiente la raccolta del lievito ad alta fermentazione. Analoghe vasche aperte sono però impiegate anche per le Lager, come dimostrano alcuni tradizionali birrifici sparsi tra Franconia, Turingia e Baviera in generale. Sono soluzioni molto dispendiose in termini di costi, spazi e tempi necessari per la cotta. Tuttavia i birrai le utilizzano non solo come omaggio alla cultura brassicola del passato, ma anche per la credenza (mai del tutto confermata scientificamente) che le fermentazioni aperte abbiano effetti positivi sulla salute del lievito, sul profilo aromatico e sull’intensità generale della birra.
Le coolship in Italia
Per diversi motivi, non ultimo l’interesse che si è sviluppato negli ultimi anni intorno alle birre acide, in Italia molta attenzione è rivolta all’impiego di vasche di raffreddamento. Il primo a impiegare un serbatoio assimilabile a una coolship fu il visionario Renzo Losi del birrificio Torrechiara (Panil), che nel 2007 lanciò sul mercato la Divina, la prima birra italiana a fermentazione spontanea. Per raffreddare il mosto utilizzò il rimorchio di un camion durante una notte di luna piena – tutto vero! – posizionato in un preciso punto dei terreni della cantina vinicola di famiglia. Come capita a tanti visionari, Renzo era abbondantemente in anticipo sui tempi perché l’impiego di coolship in Italia cominciò a diffondersi solo molti anni dopo.
Oggi i birrifici italiani che utilizzano vasche di raffreddamento sono pochi, sia chiaro. Quelle delle birre acide continua a essere una nicchia di mercato e lo è ancora di più se limitiamo l’analisi alle fermentazioni spontanee tramite coolship. Uno dei produttori che ne fa largo uso è Monpiër de Gherdëina (sito web): oltre a diverse birre “convenzionali”, l’azienda altoatesina utilizza una vera vasca di raffreddamento per la sua linea Spontaneum Gardenensis, ispirata inevitabilmente al Lambic del Pajottenland. Lo stesso modello di riferimento è preso dal birrificio Siemàn (sito web) per la sua Secondo Noi, realizzata non solo con una fermentazione spontanea attivata dal raffreddamento del mosto in coolship, ma anche con ingredienti e tecniche tipiche delle produzioni del Pajottenland (turbid mash, luppoli suranné, lunga bollitura, fermentazione e maturazione in botti di rovere).
Un altro birrificio italiano a utilizzare una vasca di raffreddamento è Cantina Errante (sito web), che in gamma ha una linea battezzata proprio Coolship Series. L’azienda toscana si è procurata delle vasche aperte e le ha posizionate all’esterno del birrificio, utilizzandole per raffreddare il mosto prodotto con turbid mash prima di trasferirlo nelle botti dove avviene la fermentazione. La vasca di raffreddamento è fondamentale anche per Collerosso (pagina Facebook), il birrificio artigianale nato dalle recenti evoluzioni di Birra del Borgo. La tagline “Be Spontaneous” la dice lunga sull’approccio dell’azienda alla produzione brassicola e una delle creazioni di punta è la ‘Round Overnight, un blend di tre diverse annate di fermentazioni spontanee, secondo un processo produttivo che ricorda da vicino quello delle Gueuze. Infine troviamo l’uso di vasche aperte (ma per fermentazioni miste) anche nel progetto Trip in Barrique, di cui scrivemmo a fine 2018.
Le vasche di fermentazione in Italia
L’uso di coolship in Italia è pratica rara, ma lo stesso si può affermare per l’impiego di vasche per la fermentazione. Uno dei pochi birrifici italiani a ricorrere a questa soluzione è Kauss, produttore piemontese attivo dal 2012. Di recente il birraio e socio fondatore Luigi Cagioni ha deciso di lanciare un progetto di fermentazione in vasca aperta refrigerata, utilizzando un serbatoio da 4.000 litri mantenuto alla temperatura costante di 9 °C. L’idea è di recuperare un’antica tecnica brassicola, tipica delle tradizioni europee, forte dello stage di specializzazione eseguito in passato presso un birrificio artigianale tedesco. La soluzione si rivela particolarmente adatta per le Lager, poiché le cellule del lievito Saccharomyces pastorianus tendono a muoversi verso il basso durante il loro processo metabolico, lontano da eventuali microorganismi presenti in superficie.
Rispetto alle controindicazioni di fermentare in vasca aperta, il birrificio Kauss avanza queste obiezioni:
Uno dei dubbi più comuni riguardo a questa tecnica è l’ossidazione. È vero che possono verificarsi parziali fenomeni ossidativi, ma quando questi vengono ridotti al minimo, contribuiscono alla creazione di caratteristiche di rotondità che diventano peculiari e identitarie per queste birre. La forma ampia e bassa della vasca aperta riduce lo stress sul lievito causato dalla pressione, che è inferiore rispetto ai fermentatori verticali. Inoltre, la superficie piatta e più estesa permette una fermentazione più vigorosa, migliorando la pulizia del prodotto finale e il risultato organolettico.
Interessanti poi le ripercussioni dell’uso della vasca aperta in termini di turismo birrario, poiché il birrificio permette ai suoi visitatori di seguire la fermentazione della birra direttamente, assistendo alla fase più “magica” e interessante di tutto il processo.
Troviamo l’uso di vasche aperte per la fermentazione anche in due birrifici del Sud Italia. Uno è il Birrificio dell’Aspide (sito web), in Cilento, dove il birraio Vincenzo Serra si distingue per un approccio decisamente “old-style” alla produzione brassicola: non solo impiega tini di fermentazione aperti, ma utilizza anche una sala cottura a fuoco diretto, realizzata personalmente. A Ostuni, in Puglia, vasche di fermentazione aperte sono presenti nel birrificio Birrapulia (sito web), dove il birraio bavarese Oliver Harbeck le utilizza per le sue birre sin dal 2012. Questa impostazione deriva chiaramente dalle sue origini e dagli anni di formazione ed esperienza maturati in istituti e birrifici della Germania meridionale.
Una vasca di ossidazione?
Concludiamo questa panoramica accennando a Teo Musso del birrificio Baladin (sito web), che alla fine degli anni ’90 cominciò gli esperimenti che portarono alla successiva nascita della Xyauyù (2005). Affascinato dai grandi vini ossidati, Teo cercò di riproporre lo stesso effetto nella birra: versò una cotta di Super Baladin in una grande vasca da latte situata nel cortile di casa della madre e la lasciò a riposare per circa un anno, coprendola in maniera non ermetica. Una vasca semi-aperta, dunque, che non usò per raffreddare il mosto o per fermentare la birra, bensì per creare una sorta di evoluzione a lungo termine con protagonista l’ossigeno. Inutile specificare che anche in questo caso l’intero processo è molto lungo e dispendioso, basti pensare che ogni volta si registra una perdita di prodotto pari al 58% – 60% a causa dell’evaporazione.