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Tre innovazioni chiave per la storia della birra: come si sono diffuse e perché

Qualche giorno fa sul suo blog Beervana lo scrittore Jeff Alworth ha pubblicato un post molto interessante, nel quale ripercorre le evoluzioni del mercato internazionale della birra a partire dagli anni ’60. Ricostruendo le innovazioni che sono state adottate negli ultimi 50 anni (o poco più), l’autore si mostra d’accordo con l’idea che la storia abbia un andamento ritmato o, se vogliamo, sinusoidale. La rivoluzione della birra craft e il suo sviluppo mostrerebbe proprio un simile decorso: siamo partiti da una condizione altamente tecnologizzata rappresentata dal dominio globale delle Lager industriali, in seguito è cresciuto un desiderio di ritorno all’artigianalità, successivamente il comparto craft ha cercato maggiore efficienza attraverso la tecnologia e ora stiamo tornando a una situazione in cui le innovazioni tecniche assumono un’importanza sempre maggiore. Nonostante non sia totalmente d’accordo con alcuni passaggi, il merito dell’articolo è di analizzare le ripercussioni sociali e culturali delle varie innovazioni.

L’adozione di una tecnologia all’interno di un ambiente è infatti un processo molto delicato, nel quale entrano in gioco considerazioni di tipo puramente economico, ma non solo. Fondamentali sono le dinamiche sociali che si innestano nel percorso e che possono facilitare l’adozione di una tecnologia o creare resistenze alla sua diffusione. Se poi contestualizziamo questo discorso – che, sia chiaro, è suffragato da decenni di teorie scientifiche – al mondo della birra, entrano in gioco altre variabili più strettamente legate alla produzione e soprattutto al consumo. Come spiegato da Alworth nel suo pezzo, la storia della nostra bevanda è disseminata di cambiamenti epocali che hanno destabilizzato sicurezze consolidate e che spesso hanno dovuto superare forti diffidenze prima di diffondersi nell’ambiente. Per chi è appassionato di sociologia e di birra artigianale come il sottoscritto, può essere interessante ripercorrere alcuni di questi momenti chiave.

La diffusione delle birre chiare

Come spero sappiate, le birre chiare sono una conquista relativamente recente nella storia della nostra bevanda, possibile grazie all’industrializzazione del processo di maltazione (e quindi alla disponibilità di malti chiari). Un falso storico è che la prima birra chiara in assoluto sia stata la Pilsner Urquell, poiché già da tempo i birrai inglesi già stavano sperimentando i nuovi malti. Eppure la creazione di Josef Groll riscontrò un successo senza pari tra la popolazione locale, decretando il successo planetario di queste birre. Un successo che però non fu immediato: proprio Alworth cita le dure reazioni dei birrai di Monaco al tentativo di immettere le birre chiare nel mercato locale, dominato all’epoca dalle Dunkel e da altre tipologie tendenzialmente scure.

Il primo tentativo di introdurre un prodotto più chiaro della media risale al 1841 – quindi addirittura un anno prima della nascita delle Pils – quando il birrificio Spaten lanciò la sua prima Marzen. Dovettero però passare più di 30 anni per il successivo step cromatico, che arrivò nel 1872 con la Helles Export Bier di Franziskaner: a dispetto del nome non era ancora una vera Helles, rimanendo nell’ambito delle birre tendenzialmente ambrate. La prima reale imitazione di una Pilsner raggiunse il mercato solo nel 1893 grazie al birrificio Hacker, mentre l’anno successivo, finalmente, fu prodotta un’autentica Helles: era il 21 marzo 1894 e il birrificio Spaten se ne uscì con la sua ultima innovazione. Significativa però la scelta dell’azienda di testare il prodotto lontano da Monaco: solo dopo il successo ottenuto nella città di Amburgo, la prima Helles divenne disponibile anche per i cittadini della capitale bavarese. Questa genesi contorta dimostra la difficoltà nel superare le resistente dell’epoca: più che dei consumatori, probabilmente della stessa industria birraria. Le innovazioni spesso cambiano i rapporti di forza all’interno di un ambiente, ecco perché quasi sempre corrispondono a una rivoluzione dello status quo.

Il successo dei luppoli americani

Spesso sentiamo ripetere che la rivoluzione della birra craft è soprattutto la rivoluzione del luppolo. In effetti è l’ingrediente che è stato più penalizzato in passato dalla diffusione dei prodotti industriali e che i microbirrifici hanno saputo rivalutare, eppure l’idea che abbiamo oggi del luppolo deriva essenzialmente dalla cultura brassicola americana. Varietà estremamente aromatiche non solo sono pienamente accettabili nella nostra epoca, ma sembrano le uniche degne di nota. In determinati stili siamo abituati a ritrovare intensi aromi luppolati di resina, agrumi e frutta tropicale, mentre riteniamo normali birre totalmente orientate sulla componente amara. Questa concezione è il segno della vittoria dei produttori americani, che sono riusciti a trasformare un limite nel loro più grande fattore di successo.

Come sottolinea lo stesso Alworth, a livello aromatico i luppoli coltivati in America (incrociati con varietà europee) sono bene lontani dalle varietà nobili del Vecchio Continenti. Ma i birrifici americani hanno trasformato il problema in un vantaggio, costruendo il carattere delle loro birre intorno a questo aspetto. A posteriori possiamo affermare che è stata un’impresa immane, perché essenzialmente hanno totalmente soverchiato l’aspettativa dei consumatori nei confronti della bevanda. Ma è stata possibile grazie alla compresenza di diversi fattori positivi nello stesso momento: il vantaggio economico nell’utilizzare luppoli autoctoni, la possibilità di differenziarsi in maniera decisiva dal mercato delle multinazionali, la concomitante ascesa dell’interesse per i prodotti locali. La narrazione dei microbirrifici americani ha trovato un terreno fertile in cui svilupparsi, al punto di riuscire a cambiare il gusto dei consumatori non solo nel mercato domestico, ma in tutto il mondo.

L’ascesa delle lattine

La costante diffusione della lattine è l’ultima drastica innovazione dell’ambiente, nella quale ritroviamo molti elementi delle teorie socio-economiche che cercano di spiegare l’adozione delle nuove tecnologie. La cosiddetta teoria della diffusione delle innovazioni (che prende origine, tra gli altri, dal modello di Everett Rogers) presuppone l’esistenza di varie fasi, che si susseguono nel tempo. Come spiega la Treccani:

L’adozione di un’innovazione (tecnologica) riguarda le strategie decisionali che portano l’individuo a fare propria una particolare tecnologia. Queste dinamiche si basano su un processo a cinque fasi così organizzato: la fase di consapevolezza (awareness), in cui l’individuo prende atto dell’innovazione; la fase di interesse (interest), in cui egli si appassiona all’idea e cerca informazioni aggiuntive su di essa; la fase di valutazione (evaluation), consistente nel prefigurarsi uno scenario d’uso per spiegarne le opportunità che verranno completamente comprese poi nella fase di prova (trial); infine, la fase dell’adozione vera e propria (adoption), nella quale l’individuo diventa pienamente consapevole dei benefici apportati dalla tecnologia e in base a ciò decide di continuarne l’uso.

Ebbene, se avete seguito l’evoluzione delle lattine nel mercato italiano probabilmente non faticherete a trovare conferme a questo modello. Ma la cosa interessante è che questo processo è applicabile tanto all’industria quanto ai consumatori, ovviamente con declinazioni diverse. Da ambo le parti ci deve essere una graduale presa di coscienza della nuova tecnologia fino alla sua totale adozione. Oggi probabilmente in Italia siamo ancora nella fase di evaluation o di trial, poiché le lattine rimangono un contenitore utilizzato da pochi birrifici.

Rogers teorizza anche l’esistenza di cinque diversi gruppi sociali: gli innovatori, disposti ad assumersi dei rischi; gli anticipatori, pionieri nell’uso dell’innovazione e opinion leaders; la maggioranza iniziale, che rappresentano la prima ondata ampia di utilizzatori; la maggioranza tardiva, che mostra qualche resistenza in più nell’adozione della nuova tecnologia; infine i ritardatari, tradizionalisti e cocciutamente legati al passato. Se parliamo di lattine e del mercato italiano, tra gli innovatori possiamo inserire i primi birrifici che hanno sperimentato la lattina: Bad Attitude (2010, pioniere assoluto), Baladin (2015), Birra del Borgo (2016). Tra gli anticipatori vale la pena citare Mister B (unico a uscire con sole lattine), Crak (che ha eliminato le bottiglie a favore del nuovo contenitore), Lambrate, Hibu, Bibibir, Grand St. Bernard e altri. Il fenomeno deve ancora incontrare l’adozione della maggioranza tardiva (semmai succederà): in Italia la lattina è ancora un contenitore di nicchia.

Una delle critiche che spesso viene mossa ai modelli di Rogers è che non sono in grado di spiegare i motivi del successo o dell’insuccesso di un’innovazione, descrivendo dinamiche semplicistiche e troppo asettiche. Una tecnologia per affermarsi deve portare evidenti vantaggi all’industria: la superiorità rispetto al vetro è evidente sotto diversi punti di vista, ma difficilmente da sola giustifica l’acquisto di una costosa linea di inlattinamento. È infatti fondamentale anche l’altra parte del mercato, quella cioè degli utenti finali, che devono trovare un motivo per cambiare le loro abitudini di consumo. La lattina è comoda, ma soprattutto incarna valori che prescindono da elementi puramente materiali: sono “giovani” e soprattutto sono belle. È innegabile che la componente estetica delle lattine, enfatizzata dall’ascesa dei social network, ha decretato in maniera definitiva il successo di questo contenitore e spinto alla loro adozione. Secondo il sociologo francese Gabriel Tarde la diffusione di una tecnologia segue una forma a S (detta sigmoide) con una fase lenta, un crescita improvvisa e poi un lento rallentamento. Per le lattine probabilmente siamo ancora all’inizio di questa curva, almeno per quanto riguarda il mercato italiano.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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