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Botti, luppoli e dry hopping: quando le innovazioni produttive sono pratiche antiche

I rapidi cambiamenti che caratterizzano l’ambiente della birra artigianale non solo dettano tendenze e mode, ma spingono a sperimentare tecniche produttive innovative. Di esempi possiamo trovarne diversi: l’impiego sempre più frequente dei Cryo Hops (luppolo in polvere), la riscoperta della lattina nella sua incarnazione hi-tech, l’uso della cavitazione nel processo produttivo e altri ancora. In alcuni casi tali rivoluzioni hanno segnato fasi ben precise dell’evoluzione della birra craft, finendo con l’aggiungere peculiarità ben definite a stili o tipologie brassicole di nuova concezione. Tuttavia non sempre un’innovazione è davvero tale: talvolta ciò che riteniamo essere una consuetudine emersa solo negli ultimi anni, affonda in realtà le sue radici nella storia stessa della bevanda. In alcune circostanze questo legame è piuttosto chiaro ed evidente, in altre meglio nascosto e dunque più sorprendente.

Uso della botte

Il caso più celebre dell’assunto di partenza è rappresentato dall’impiego delle botti nel processo di produzione brassicola. Uno dei principali trend degli ultimi anni è infatti incarnato dall’ascesa delle produzioni maturate in botte, tanto che quando spieghi a un neofita che una data birra ha subito un affinamento in legno quasi sempre strabuzza gli occhi, come se questo contenitore non avesse niente a che fare con la nostra bevanda. In realtà il suo impiego nel settore birrario risalirebbe al tempo dei Celti: sarebbero state proprio le popolazioni della Gallia a utilizzare le botti per la birra, oltre a introdurre altre importanti innovazioni come un forma primordiale di ammostamento. Nel Medio Evo l’impiego di botti si diffuse ovunque, grazie agli innumerevoli vantaggi che fornivano rispetto ad altri contenitori: resistenza agli urti, facilità di spostamento, buona capacità conservativa.

Oggi la funzione della botte è cambiata. Se in passato era considerata un contenitore a tutti gli effetti, oggi è utilizzata per affinamenti, cioè per modificare il gusto di una birra. Ciononostante esistono ancora oggi delle realtà che concepiscono questo strumento come in passato, concentrate soprattutto in Germania: pensiamo alle Altbier di Dusseldorf, alle Kölsch di Colonia o alle birre della Franconia, spesso spillate a caduta direttamente dalla rispettiva botticella. In Inghilterra alcuni birrifici ancora utilizzano cask di legno, che sono a tutti gli effetti delle piccole botti: ad esempio Theakston e Samuel Smith’s producono delle edizioni limitate delle loro birre confezionate proprio in questo modo. Infine in alcuni casi le botti vengono usate per la fermentazione, e non (solo) per la maturazione: l’esempio più celebre è rappresentato dai produttori di Lambic.

Dry hopping

A proposito di Lambic, qualche giorno fa abbiamo riportato la notizia della prima Lambic IPA di Cantillon, che ha sollevato parecchie polemiche. Come abbiamo visto non è una IPA, bensì un Lambic che ha subito una luppolatura a freddo con varietà moderne. Il dry hopping consiste proprio in questo: un’infusione di luppolo che avviene in un momento successivo alla bollitura, cioè dopo la fase in cui solitamente si aggiunge questo ingrediente. L’obiettivo è permettere al luppolo di esprimere al massimo le sue caratteristiche aromatiche, molto evidenti soprattutto in varietà recenti. I composti chimici responsabili dell’aroma della pianta sono infatti molto volatili e tendono a disperdersi velocemente durante la fase di bollitura, motivo per cui ci si riferisce a luppoli da amaro e luppoli d’aroma: questi ultimi sono aggiunti a fine bollitura, proprio per evitare di perderne le proprietà. Il dry hopping quindi punta ad accentuare ulteriormente questo aspetto.

La tecnica è oggi molto utilizzata per stili di stampo moderno, specialmente IPA e Pale Ale di concezione americana. In realtà si è esteso a molte altre tipologie, come le Pils: una delle peculiarità della celeberrima Tipopils del Birrificio Italiano è proprio di ricorrere a questa soluzione produttiva. Si pensa quindi che sia una consuetudine emersa solo negli ultimi decenni, ma in realtà il dry hopping è conosciuto sin dalla metà del 1800, quando veniva utilizzato da alcuni birrifici inglesi per le loro Pale Ale: essi aggiungevano coni essiccati in fondo ai cask prima del confezionamento. Un’altra testimonianza dell’anzianità del dry hopping arriva dal Belgio: la ricetta della trappista Orval prevede proprio il ricorso a questa tecnica, aspetto decisamente sorprendente per una birra del genere.

Impiego di luppoli americani

Se dobbiamo indicare uno dei principali aspetti che hanno contraddistinto la rivoluzione della birra craft, sicuramente non possiamo non citare l’impiego dei luppoli statunitensi. Le varietà diventate famose in questi anni sono tantissime: Cascade, Citra, Simcoe, Amarillo, Mosaic e Centennial, solo per citarne alcune. Le loro caratteristiche aromatiche hanno stravolto gli stili birrari e la concezione stessa della bevanda, tanto che negli anni è diventato sempre più difficile reperire determinate qualità. La loro ascesa ha influenzato anche i produttori tradizionali di luppolo, che si sono mostrati sempre più interessati a isolare varietà con aromi specifici: la moda ha contagiato Germania, Slovenia, Australia e tanti altri paesi.

In realtà il rapporto tra birra artigianale e luppoli statunitensi non è circoscritto agli ultimi 40 anni, ma risulta molto più antico. Come magistralmente documentato da Martyn Cornell sul suo Zytophile, le varietà americane cominciarono a essere importate nel Regno Unito già alla fine del primo decennio del XIX secolo. La prima testimonianza arriva dal quotidiano Liverpool Mercury del maggio 1817, in cui si annunciava l’arrivo in città di una nave proveniente da New York, nel cui carico erano presenti anche due sacchi di luppoli. Pochi mesi dopo, a novembre, altre due navi arrivarono con un’ottantina di sacchi di luppolo in totale. Presumibilmente l’importazione fu suggerita dalla scarsità di luppolo inglese, causato dagli effetti dell’eruzione del Tambura nel 1816 (l’Anno senza estate). Dai documenti sembra però che i birrai britannici non amassero molto le varietà americane, soprattutto per le loro note resinose. Come cambiano le abitudini…

Come sempre la storia della birra riserva curiosità e vicende sorprendenti, che ci spingono a ricrederci di molte convinzioni che consideriamo appurate. Vi vengono in mente altre tecniche solo apparentemente moderne?

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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