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Le tendenze di un decennio di birra artigianale in Italia – Parte seconda

Cronache di Birra esiste ormai da quasi 12 anni e quindi ha potuto raccontare da vicino il decennio birrario appena concluso. Qualche giorno fa abbiamo analizzato i fenomeni che hanno caratterizzato la prima parte degli anni ’10 del secolo corrente, individuando un trend per ogni annata. Abbiamo aperto descrivendo il fermento in atto nel 2010, poi siamo passati a raccontare di birra agricola (2011), di collaborazioni e one shot (2012), di beer firm (2013) e del modo in cui la politica cominciò a interessarsi dell’argomento (2014). Oggi riprendiamo il viaggio e affrontiamo la seconda parte del decennio. Un lustro durante il quale sono avvenute tante vicende importanti e che possiamo considerare il più importante in assoluto per la storia della birra artigianale italiana. È stato anche il periodo in cui si è percepita la fine del boom e la stabilizzazione del mercato: una sfida con cui confrontarsi nel prossimo decennio, ma non necessariamente un male per il settore. Tutto dipenderà dal modo in cui sarà affrontato.

2015 – Italian Grape Ale

Le Style Guidelines del BJCP rappresentano forse il documento più importante in assoluto quando si parla di stili birrari, eppure la sua revisione avviene con la stessa frequenza del passaggio della cometa di Halley. Perciò nel 2015 fu già una notizia il rilascio della versione aggiornata delle linee guida, ma la novità per noi assunse un peso ancora maggiore per la presenza del primo stile italiano, quello delle Italian Grape Ale. Riferirsi al “primo stile italiano” non è tuttavia tecnicamente corretto, in quanto la tipologia compare in uno degli appendici del documento, inserito tra gli stili regionali candidati a diventare ufficiali in futuro. È chiaro però che bastò quella semplice inclusione – frutto comunque di un gravoso lavoro da parte dei delegati italiani – perché si alimentasse un gran fermento intorno all’argomento.

Sebbene la stessa espressione Italian Grape Ale fosse stata introdotta per la prima volta dal BJCP, erano anni che in Italia venivano prodotti questi esperimenti a cavallo tra il mondo della birra e quello del vino. Il pioniere, come forse saprete, fu Nicola Perra con la sua BB10 (sapa di Cannonau), ma prima di quel fatidico anno diversi birrifici si erano già confrontati con la tipologia, utilizzando spesso mosto di uve coltivate nel territorio di appartenenza. A ogni modo la novità presente nelle Style Guidelines diede uno straordinario impulso a questa specialità, favorendo il moltiplicarsi di Italian Grape Ale e contribuendo a trasformare l’espressione in un termine di uso quotidiano (o quasi). Oggi si stima che in Italia siano prodotte tra le 100 e le 130 Italian Grape Ale: la qualità è ovviamente altalenante, ma in generale ognuna di esse incarna diversi caratteri del modo italiano di intendere la produzione brassicola.

2016 – Acquisizioni

Il 2016 rappresenta per la birra artigianale italiana l’anno dell’innocenza perduta. Mi riferisco ovviamente al momento in cui, per la prima volta, un birrificio craft fu acquistato da una multinazionale del settore: il 22 aprile 2016, infatti, Birra del Borgo annunciò la sua cessione ad AB Inbev, il più grande colosso birrario del mondo. Per il nostro movimento fu una batosta pesantissima: sebbene il fenomeno delle acquisizioni fosse all’ordine del giorno negli USA e avesse cominciato a espandersi anche in Europa, in molti rimasero di stucco di fronte alle notizie provenienti da Borgorose. Io ero tra quelli già preparati al grande annuncio, poiché ero venuto fortuitamente a conoscenza dell’operazione diverse settimane prima. Improvvisamente il segmento nazionale dovette confrontarsi con una situazione tutta nuova, che avrebbe cambiato gli equilibri del mercato e forse anticipato altre vicende analoghe.

Nei mesi successivi, infatti, diverse multinazionali cominciarono a sondare il mercato per seguire la scia del loro competitor principale. Così nel corso dell’anno successivo arrivarono a stretto giro le acquisizioni di Birradamare da parte di Molson Coors, quella di Birrificio del Ducato da parte di Duvel e quella di Hibu da parte di Heineken (tramite la controllata Dibevit); senza contare l’assorbimento di Toccalmatto da parte di Caulier – operazione che rimase comunque nei confini della birra artigianale. Poi quando tutti erano pronti a scommettere che sarebbero arrivate altre cessioni, il fenomeno si interruppe. Negli anni successivi non abbiamo dovuto aggiornare il conteggio, probabilmente perché l’industria si è resa conto che non aveva troppo senso investire in un segmento ancora tendenzialmente acerbo. Nel frattempo sia in Birra del Borgo che in Birradamare è cambiato il top management, dimostrando come questi marchi fossero destinati a perdere la loro indipendenza in tempi relativamente brevi.

2017 – Lattine

Se dovessimo indicare il trend più importante che ha caratterizzato le evoluzioni internazionali della birra craft, personalmente sarei propenso a indicare le lattine. La loro introduzione nel comparto artigianale come alternativa al vetro cominciò nel primo decennio del 2000, quando negli Stati Uniti alcuni birrifici iniziarono a interessarsi a questo contenitore. La loro vera esplosione a livello mondiale è però avvenuta nel corso dell’ultimo decennio, rivoluzionando le abitudini dei consumatori e spesso assecondando la nascita di nuovi stili. I vantaggi portati dalle lattine hanno rapidamente sbriciolato le resistenze culturali nei loro confronti, spingendo i produttori a investire ingenti somme di denaro per acquistare impianti di inlattinamento.

Era solo questione di tempo prima che questo fenomeno iniziasse a diffondersi anche in Italia. A parte l’esperienza visionaria del marchio Bad Attitude (tecnicamente svizzero), le prime lattine di birra artigianale comparirono nel nostro paese nel 2015, grazie alle iniziative di Baladin prima e Birra del Borgo poi. Nel corso del 2016 qualche altro produttore si aggiunse alla lista, tra cui il Birrificio Lambrate che puntò con decisione su questo nuovo contenitore. La sua scelta velocizzò l’adozione delle lattine in Italia, che divennero un reale fattore nel corso del 2017 anche grazie all’importanza acquisita dal concetto di “freschezza” della birra. Alcuni importanti birrifici si convertirono completamente all’alluminio (un nome su tutti fu Crak) e a fine anno arrivò Mister B, il primo birrificio italiano con sole lattine. Il trend ovviamente è ancora in crescita e un numero sempre maggiore di aziende si sta interessando a questo contenitore.

2018 – New England IPA

In termini di stili birrari – o presunti tali – la seconda parte del decennio appena concluso è stata profondamente influenzata dalle New England IPA. A livello internazionale si cominciò a parlare di questa tipologia tra il 2015 e il 2016, quando alcuni osservatori isolarono caratteristiche precise in un certo modo di produrre American IPA tra Vermont, Maine, Massachusetts e altri stati della parte di East Coast conosciuta come New England. Le peculiarità erano diverse e non necessariamente rintracciabili tutte in contemporanea: una netta opalescenza, al limite della torbidità; un corpo tendenzialmente morbido e felpato; un profilo aromatico dominato dalla frutta esotica e da qualche sfumatura resinosa; una componente amara piuttosto contenuta, nonostante la netta presenza del luppolo in termini d’aroma; l’impiego di ceppi di lievito particolari. Da curiosità regionale quello delle New England IPA divenne presto un fenomeno globale, favorito dall’ascesa di Instagram e di altri social network.

In Italia si affacciò nella seconda metà del decennio, acquistando rapidamente popolarità tra birrai e appassionati. Diversi birrifici cominciarono a confrontarsi con la tipologia, chi in maniera “autentica”, chi ricorrendo a soluzioni non esattamente ortodosse. Il segnale che le New England IPA stavano diventano un fattore anche in Italia arrivò a inizio 2018, quando Unionbirrai le riunì in una categoria a sé stante in occasione del concorso Birra dell’anno. Oggi la moda sembra leggermente in declino, sebbene molti marchi industriali o crafty abbiano lanciato negli scorsi mesi le versioni “hazy” (opalescenti) delle loro birre di punta. E nonostante gli alti e bassi, questo sottostile continua a resistere alle fluttuazioni del mercato meglio di tanti altri.

2019 – Tap room

Riferendoci all’Italia, quello delle tap room o dei locali a marchio è uno dei trend più importanti dell’ultima parte di decennio. Un elemento consolidato in molte nazioni brassicole, ma che da noi ha cominciato a diventare una tendenza costante solo negli ultimi anni. Non tanto per scelta quanto per necessità, poiché con l’aumento della competizione nel mercato domestico molti birrifici si sono sentiti costretti ad affidarsi a luoghi direttamente controllabili, dove smerciare direttamente il loro prodotto e nel frattempo fidelizzare la clientela al marchio. Ma le tap room sono anche la risposta al bisogno dei birrifici italiani di riappropriarsi di una dimensione locale, inserita nel territorio di appartenenza e legata alla propria comunità.

Gli anni ’10 per la birra artigianale italiana sono stati quelli dell’onnipresenza dei marchi, con prodotti a volte commercializzati a centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di origine. L’idea di conquistare mercati appetitosi ma geograficamente distanti si è rivelata fuorviante: è una strategia difficilmente sostenibile nel medio-lungo termine e che può rivelarsi addirittura controproducente. Oggi sta riacquistando valore il contesto locale e le tap room sono la diretta emanazione di questo cambio di rotta. Il fenomeno sarà probabilmente uno dei più importanti del prossimo futuro di birra artigianale in Italia: le tap room hanno caratterizzato il 2019 e gli ultimi anni del decennio, ma saranno un fattore anche nel prossimo.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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