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Birra e categorie: ha davvero senso parlare di “stili birrari”?

Su Cronache di Birra abbiamo sempre esaltato con passione l’opera di divulgazione di Michael Jackson e soprattutto il suo approccio “etnografico” alla birra, diventato il riferimento assoluto per analizzare il passato e il presente della nostra bevanda. Da quella splendida intuizione Jakson elaborò l’espressione “stile birrario”, un concetto che riunisce produzioni accomunate da caratteri simili in termini organolettici, realizzativi, storici e sociali. La sua impostazione ha favorito una suddivisione dell’universo brassicolo in categorie – cioè, appunto, in stili – contraddistinte da peculiarità più o meno definite, nelle quali si tende a far ricadere qualsiasi creazione. Nonostante la validità di questo modus operandi, senza il quale probabilmente fare cultura birraria sarebbe oggi molto più difficile, è opportuno tenere presente che la bevanda non si è sviluppata per compartimenti stagni, ma lungo percorsi sfumati e confusi in cui non è sempre facile rintracciare precisi prototipi stilistici.

Oggi siamo abituati a ragionare per stili e a cercare nelle Style Guidelines del BJCP la risposta a tutte le nostre domande su una determinata birra. Ma molte tipologie che oggi consideriamo consolidate non sono altro che il lavoro di sintesi effettuato a posteriori (in particolare negli ultimi 40 anni), tramite il quale si cerca di semplificare un panorama complesso e ingarbugliato, non privo di contraddizioni. Esiste cioè una distanza tra la concezione di birra che emerge da strumenti come le Style Guidelines e la realtà dei fatti, spesso difficile da indagare proprio perché appartenente a secoli passati. Per spiegare ciò che intendo prendiamo in considerazione alcuni celebri stili birrari.

Pale Ale e Bitter

Uno degli esempi più celebri di quanto appena espresso arriva dallo stile che incarna la classica birra quotidiana della cultura inglese. Per alcuni le Pale Ale e le Bitter rappresentano due stili separati, ma tracciare una linea di confine è oggi impossibile. Questo aspetto già dovrebbe darvi un’idea della difficoltà di applicare il concetto di “stile birrario” alla storia di determinate tipologie brassicole, ma andiamo con ordine. Le Pale Ale cominciarono a diffondersi nel XVIII secolo, quando le innovazioni tecnologiche permisero di ottenere malti più chiari rispetto al passato. La tecnologia era però parecchio costosa, dunque inizialmente queste creazioni si diffusero solo in bottiglia tra le classi sociali più abbienti. Con l’abbassamento dei costi di maltazione, le Pale Ale giunsero nei pub e subirono alcune modifiche: furono introdotti cereali integrativi nel grist e abbassata leggermente la gradazione alcolica per favorirne il turnover alle spine. Le birre “pallide” da pub assunsero il nome di Bitter per essere distinte dalle Mild, scure e tendenzialmente dolci. Ma una reale distinzione tra Pale Ale e Bitter non emerse mai chiaramente, anche perché le due “tipologie” – cioè quelle in bottiglia e quelle in cask – finirono per contaminarsi a vicenda. Così nelle Style Guidelines non troverete alcuno stile definito “Pale Ale”, ma solo una famiglia denominata British Bitter e divisa in Ordinary, Best e Strong: una ripartizione fondata su basi storiche, ma che rappresenta anche il tentativo di mettere ordine in una panorama assolutamente eterogeneo e “liquido”.

Le India Pale Ale, dal canto loro, confermano questo aspetto. Oggi erroneamente molti pensano che fossero birre prodotte appositamente per le colonie britanniche in India. In realtà prima di acquisire una loro identità come prodotto da esportazione, erano già diffuse ampiamente sul mercato domestico e corrispondevano essenzialmente a una versione più amara e alcolica delle normali Pale Ale. Erano quindi l’incarnazione più “estrema” all’interno di un continuum produttivo in cui non si identificavano categorie precise di birre. Se non si fossero rivelate particolarmente adatte ai lunghi viaggi via mare, oggi non solo non si chiamerebbero India Pale Ale, ma probabilmente neanche esisterebbero come tipologia di birre specifiche.

Brown Ale e Porter

Ancora più fumoso e ingarbugliato è il discorso relativo alle Brown Ale e alle Porter, tanto che risalire oggi alle peculiarità di questi stili è un esercizio arduo e dalla dubbia efficacia. Il BJCP è molto chiaro al riguardo. Rispetto alle Brown Ale spiega che rappresentano:

Un’ampia categoria con molte diverse possibili interpretazioni, da birre chiare e luppolate a birre scure, complesse e focalizzate sulle note di caramello. […] Le Brown Ale vantano una lunga storia in Gran Bretagna, sebbene questa denominazione sia stata usata per vari tipi di prodotti in epoche diverse. Le moderne Brown Ale sono una creazione del XX secolo disponibile in bottiglia; non corrispondono a quelle del passato.

Discorso analogo per le English Porter:

La seguente descrizione si riferisce alle moderne versioni di English Porter, non a ogni possibile variazione sul tema che è esistita nelle varie zone d’Inghilterra. […] Comparse a Londra circa 300 ani fa, le Porter emersero dalle prime dolci Brown Beer popolari all’epoca. Subirono modifiche diverse volte in base allo sviluppo della tecnologia, alla disponibilità delle materie prime e al gusto dei consumatori. […] Modello nel tempo per varie interpretazioni regionali e antenato di tutte le Stout.

Secondo molti osservatori oggi individuare precisi elementi di distinzione tra Porter e Stout è assolutamente arbitrario. A proposito di Stout, la codifica di tanti sottostili appartenenti a questa famiglia (Sweet, Oatmeal, Russian Imperial, Export, ecc.) conferma quanto malleabile fosse a usa volta il modello di partenza.

Belgian Strong Ale

Non c’è bisogno di guardare necessariamente al passato per accorgerci di quanto il concetto di stile birrario sia poco applicabile in determinate circostanze. La scuola brassicola del Belgio non solo vanta numerose creazioni difficili da ingabbiare in definizioni precise, ma persino stili che si contraddistinguono per criteri molto labili. La massima espressione è rappresentata dalle Belgian Strong Ale, che già dal nome forniscono poche informazioni: sono semplicemente alte fermentazioni forti e di stampo belga (quindi prodotte con ceppi di lievito locali). L’esigenza umana di racchiudere tutto in categorie ha poi spinto a distinguere le Belgian Strong Ale chiare da quelle scure, ma la semplice specifica cromatica non basta per nascondere l’ampia variabilità di questa famiglia, in cui rientra la stragrande maggioranza delle birre belghe.

Saison

Rimanendo in Belgio, non possiamo non citare le Saison. Oggi tendiamo a pensare che questo stile sia limitato entro confini abbastanza precisi e incarnati dal modello della Saison Dupont. In realtà l’interpretazione che ne ha fatto la Brasserie Dupont rappresenta solo una delle due filosofie produttive dello stile, quella cioè che non prevede aromatizzazioni o ingredienti speciali. Storicamente però le Saison erano diverse e realizzate sia ricorrendo a spezie ed erbe – il retaggio di un’antica consuetudine brassicola – sia prevedendo cereali aggiuntivi rispetto all’orzo maltato. In generale le Saison rientrano infatti nella grande famiglia brassicola delle “birre delle fattorie”, che include molte variazioni sul tema in base alla zona di riferimento: Bière de Garde, Kveik, Kamiskas, Sahti, ecc. Insomma anche in questo caso uno stile apparentemente ben definito non è che il frutto della semplificazione di un mondo estremamente vario.

Keller, Zwickel, Landbier

Anche nell’austera cultura brassicola della Germania troviamo esempi piuttosto celebri. Vi basta fare un viaggio in Franconia per rendervi conto di come la produzione locale sia difficilmente ordinabile in categorie predefinite. Per definire le proprie produzioni, i piccoli birrifici della regione utilizzano in maniera spesso intercambiabile termini come Keller, Zwickel, Landbier, Ungespundet, ecc. Ognuno di essi ha un significato specifico, ma nessuno è in grado di fornire sufficienti informazioni sulle caratteristiche della birra. Keller significa “cantina” e indica il luogo in cui queste birre, secondo la tradizione, venivano conservate durante i mesi estivi; Zwickel è il rubinetto presente sui maturatori e sulle botti, tramite cui queste birre storicamente venivano servite ancora fresche; Ungespundet può essere tradotto come “non tappato” e si riferisce all’assenza del tappo che chiude le botti; Landbier è generalmente la “birra locale”, cioè quella prodotta dal birrificio del posto. Il BJCP cerca di fare un po’ di ordine in questo confuso panorama riferendosi esclusivamente alle Keller e suddividendole in Pale e Amber: un tentativo poco convinto e non dissimile da quello (per la verità più consolidato) delle Belgian Strong Ale.

Conclusioni

Sulla base di quanto espresso potrebbe essere naturale avanzare qualche dubbio sulla validità del concetto di stile birrario. Chiariamolo subito: parlare di stili birrari non solo ha senso, ma permette di studiare la nostra bevanda nella maniera più profonda e affascinante possibile, cioè considerandola legata alle usanze e alle consuetudini sociali che si sono avvicendate nei secoli. Però ci mette anche in guardia da un approccio esageratamente manicheo alla birra: lo stesso BJCP ci tiene a precisare che le Style Guidelines nascono per stabilire le categorie dei concorsi di degustazione, non per definire gli stili birrari esistenti al mondo. Questo aspetto va sempre tenuto in grande considerazione quando si studia una bevanda che nella sua storia ha subito numerose trasformazioni e continue contaminazioni.

L'autore: Andrea Turco

Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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6 Commenti

  1. Ciao,
    la risposta la dai nelle conclusioni, e ovviamente sono daccordo.
    Non mi piace l’esasperazione del BJCP nel dividere sottocategorie (es. keller pale e amber).
    Carlo

  2. Ciao,
    d’accordissimo su tesi e conclusioni. Un unico appunto: senza una idea di stile non avrebbero senso i concorsi birrai. Le competizioni si risolverebbero con il titolo di “la birra più buona”, naturalmente sintesi di giudizi soggettivi.

    • Considerazione giustissima, ed è esattamente il motivo per cui esiste un documento come quello redatto dal BJCP

  3. Un neofita che legge questo sarà portato a chiedersi cos’è uno stile?

    • Probabile, ma non posso ogni volta ricominciare da capo 🙂 Per fortuna nel sito si trovano diversi articoli che rispondono a quella domanda

  4. Ottimo articolo.

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